In Piazza Grande

Una «Bella estate» tra ieri e oggi con grande rispetto per Pavese

La regista italiana Laura Luchetti parla diffusamente del film interpretato dalle giovani attrici Yle Vianello e Deva Cassel – Un'opera che mette in primo piano la vicenda di una donna, Ginia, chiamata a prendere alcune decisioni determinanti per il proprio futuro
© KEYSTONE / JEAN-CHRISTOPHE BOTT
Antonio Mariotti
04.08.2023 23:00

«Sento molto vicina la malinconia pavesiana e dunque adattare La bella estate per il cinema è stato un atto di grande amore e di terrore, ma anche di umiltà per riuscire ad entrare nel cuore del libro senza stravolgerlo, ma anzi accompagnandolo per ciò che riguarda l’universalità del racconto che è l’aspetto che mi ha colpito di più, soprattutto per il tema legato alla giovinezza». Così la regista Laura Luchetti esordisce parlando del suo film proiettato questa sera in Piazza Grande. Un’opera di ambientazione che punta, implicitamente, sul parallelismo tra le preoccupazioni dei giovani di oggi e quelli dell’Italia fascista della fine degli anni Trenta. «La giovinezza, o l’adolescenza che dir si voglia - continua la cineasta, che parteciperà a breve alla realizzazione di una miniserie tv ispirata al romanzo Il Gattopardo - è il periodo in cui tutto è possibile, ma anche per molti versi terrorizzante. Dopo aver letto una quindicina di volte il libro, in certi momenti sentivo le pagine vibrare, soprattutto quando la protagonista, Ginia (che è interpretata da Yle Vianello: n.d.r.), è chiamata a fare una scelta che determinerà il suo futuro. E ciò mi ha colpito ancora di più perché ho una figlia dell’età di Ginia e i discorsi che sento sul diventare qualcuno, sull’orientarsi sessualmente sono gli stessi che si trovano in Pavese».

Adattamento complesso

Questa constatazione legata all’attualità della storia ha fatto sì che venisse abbandonata l’ipotesi di trasporre la storia ai giorni nostri, optando invece per il film in costume. Per la regista, si tratta di «sottolineare la modernità di questo sentimento del paradiso perduto che si ripete in un ciclo costante. E ciò ci permette di vedere questi ragazzi come se fossero dei ragazzi di oggi. Ciò ci ha portati a fare dei piccoli aggiustamenti rispetto a quanto scritto da Pavese più di 80 anni fa, soprattutto per ciò che riguarda i personaggi maschili che sono visti dall’autore con ferocia e da me un po’ meno». Ciò non significa però che dietro questo film non ci sia un accurato lavoro di adattamento. «Rileggendo La bella estate l’ho trovato un bellissimo libro d’atmosfera, non di struttura con un primo, secondo e terzo atto. È un libro sussurrato, di quelli che piacciono a me: non ti mette mai davanti a dei fatti ma ti ci fa arrivare poco a poco, come un bravo psicanalista. E non a caso Pavese ci dice tutto nelle ultime quattro pagine. È come se ci tirasse un gran ceffone raccontandoci quello che non sapevamo fino ad allora su Amelia (interpretata da Deva Cassel: n.d.r.)». Per Laura Luchetti, «Ginia vive un momento di fondamentale coraggio nel quale deve decidere chi amare, il che non è facile neppure oggi. E se il racconto ha uno spirito femminile è perché ho sempre pensato che Pavese fosse Ginia, bombardato da grandi sentimenti e da desideri fortissimi, che deve combattere contro il mondo per farsi voce. In questo caso femminile, mentre poi uno legge Il mestiere di vivere e ci trova un maschio brutale. È questa la meraviglia che abbiamo cercato di rispettare passo dopo passo e non è quindi un caso che in alcuni dialoghi siano presenti tali e quali le parole dello scrittore. L’adattamento non riguarda però solo il testo ma abbiamo chiesto agli scenografi e alle costumiste tutto ciò che risalisse agli anni Trenta ma che usiamo ancora oggi, perché non volevano che il film allontanasse troppo i giovani. A volte i personaggi sono vestiti come noi e i mobili che hanno in casa sono come i nostri. In un certo senso volevo che ci si dimenticasse che si tratta di un film in costume». Un modo, insomma, per avvicinare a La bella estate anche il pubblico più giovane che potrebbe sentirsi intimorito da un’operazione del tutto filologica. 

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