Premi letterari

«Una voce che cammina nella storia dando voce a chi non ce l’ha»

Nostra intervista allo scrittore abruzzese Remo Rapino, vincitore a sorpresa del 58. Premio Campiello con il romanzo «Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio»
Lo scrittore abruzzese Remo Rapino.
Francesco Mannoni
06.09.2020 22:57

Lo scrittore abruzzese Remo Rapino,con il suo secondo romanzo, Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (Minimun fax, 265 pagine, 17 € - ebook 8,99 €) di chiaro contenuto sociale ambientato nel mondo operaio, ha vinto a sorpresa la cinquantottesima edizione del Premio Campiello. Nella classifica conclusiva del celebre concorso letterario, conclusosi nella suggestiva Piazza San Marco con l’intento di rilanciare una città penalizzata come tante altre città d’arte dalla pandemia, ha preceduto Sandro Frizziero con Immersione (Fazi), Ade Zeno con L'incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri), Francesco Guccini con Tralummescuro (Giunti) e Patrizia Cavalli e il suo Con passi giapponesi (Einaudi). Rapino, 69 anni, un passato quale insegnante di filosofia nei licei, ha dedicato la vittoria a suo padre, lasciando intendere che il suo romanzo possa trattarsi di un vero romanzo autobiografico; ma la storia che lo scrittore racconta «è, per gran parte, immaginaria. Le vicende narrate invece sono – assicura - pur con qualche fantasia letteraria, reali. Del resto la scrittura non può essere mai un meccanico rispecchiamento della realtà, ma su questa sempre agisce con una logica della trasformazione e dell’utopia che aiuta a vivere». Lo abbiamo intervistato.

Attraverso Liborio lei racconta un secolo di storia piuttosto tormentato con le guerre, il fascismo, la Resistenza, l’emigrazione dal Sud verso il Nord e il boom economico: ma gli emarginati come Liborio quali sofferenze devono sopportare e quali ideali veder morire in tanto agitarsi di popolo e ammassarsi di vicende?
«Il mondo, anche attraverso le esistenze periferiche come quella di Liborio, per molti versi è cambiato. Certo grazie al sacrificio immenso di milioni di uomini. Le conquiste sociali, i diritti civili, non sono scesi dal nulla né regalati da “Principi illuminati”. Una volta si diceva “lotta di classe”. Oggi si ha paura persino delle parole, della denuncia, della indignazione di fronte alle violenze e alle ingiustizie inenarrabili della storia. Eppure il “Facit indignatio versum” di Giovenale mi pare ancora attuale. Liborio è una voce che cammina nella storia e in questo modo dà voce a quelli che non hanno voce. É una figura che si illude, però illudendosi crea anche delle speranze. É un po’ visionario, molto ingenuo e con i suoi fantasmi è a metà strada tra Don Chisciotte e altri personaggi folli della letteratura e della storia».

Liborio assurge e prototipo di un Novecento pieno di contraddizioni: il “secolo breve “ come ha condizionato lo sviluppo delle società attuali?
«Le contraddizioni, da sempre, sono il motore della storia, quindi producono, in ogni caso, una logica del cambiamento, di uno sviluppo che, però, non è sempre progresso. La memoria è uno strumento che va sempre salvaguardato in modo da riproporre, continuamente, il movimento reale che tende a superare lo stato di cose esistente, pur tra errori e fallimenti. Noi siamo quanto siamo stati».

L’esperienza operaia di Liborio traduce le difficoltà di una classe che ha sempre dovuto lottare ieri come oggi per la propria affermazione: perché secondo lei, il mondo del lavoro è ancora tanto insicuro e precario per troppa gente?
«Una risposta immediata: è il capitalismo, bellezza! Il prevalere, ad ogni costo, anche e soprattutto sulla vita umana, della logica del profitto, delle leggi di un presunto liberismo e di un apparente liberalismo. Diceva Hegel: “Il capitalismo è una bestia selvaggia che va addomesticata”. Ed Hegel non era di certo un rivoluzionario. Insicurezza e precarietà e perdita dei diritti sono forme di una violenza legalizzata che portano alla alienazione della vita umana».

Uomo fragile più volte sconfitto dalla vita, Liborio è il rappresentante di quella parte di popolo che non fa mai la storia, ma che la vita lo coinvolge lo stesso nel marasma sociale che attraversa. Pedine inconsapevoli?
«La storia è anche Liborio, preso come simbolo di una più vasta umanità. “Siamo noi quel piatto di grano”, direbbe De Gregori per definire “quelli che non sanno neanche parlare”. Esiste una storia della marginalità che ha la stessa dignità della storia dei “grandi”. Neanche Alessandro o i Faraoni o Napoleone agirono da soli. Si rileggano le “Domande di un lettore operaio” di Brecht».

Ogni follia è un’energia che abbiamo dentro: un’energia spesso incontenibile che può esplodere e rovesciare i codici speciali dominanti. Anche le eresie sono necessarie sul palcoscenico del mondo. Per meglio capirlo e, nel caso, trasformarlo

Sono molte le prove che Liborio deve affrontare e superare, e la più tragica forse è la reclusione in manicomio. Che idea gli resta del mondo di fuori e come riesce a riappropriarsene una volta dimesso?
«Il manicomio è un altro segno nero, ma col tempo acquista una sua positività, un senso che matura ulteriormente Liborio sul piano della consapevolezza, della coscienza di sé. Il mondo di fuori resta lo stesso, con le sue falsità e ingiustizie. La follia si fa possibilità per riconquistarsi, trovare un senso ai giorni da vivere. Liborio si fa così più libero. Non a caso Liborio e libero hanno la stessa radice. La sua follia, ogni follia, è un’energia che abbiamo dentro: un’energia spesso incontenibile che può esplodere e rovesciare i codici speciali dominanti. Anche le eresie sono necessarie sul palcoscenico del mondo. Per meglio capirlo e, nel caso, trasformarlo».

Rapino, in definitiva, il Liborio del suo romanzo, è uno strano o solo un infelice?
«Forse Liborio è infelice, eppure non vuole essere come gli altri. La sua vita si snoda tra “segni neri” e “cattiverie rivoltose”, tra stupore, piccole gioie e grandi tristezze. La sua “fortuna” consiste nel condividere la vita con quelle degli ultimi della fila. Questo il tema su cui riflettere: il senso e l’assenza della giustizia».