L’intervista

«Vi racconto LeBron James e il sogno americano»

Amos Sussigan, ticinese, vive e lavora a Los Angeles: regista, sceneggiatore, visual designer, ha appena partecipato agli Oscar in quanto membro dell’Academy e si è occupato delle animazioni di «Space Jam: A New Legacy» in uscita a luglio
© CdT/Chiara Zocchetti
Marcello Pelizzari
30.04.2021 19:49

È ticinese. E vive a Los Angeles, la fabbrica dei sogni. Amos Sussigan, classe 1989, è un artista a 360 gradi. Regista, sceneggiatore, visual designer. Partito da Locarno, ha conquistato l’America. E, di riflesso, il mondo. Per dire: Coaster, il suo cortometraggio del 2019, era in lizza per gli Oscar 2020. Quest’anno, invece, Amos era fra i giurati in quanto membro dell’Academy. Di più, il suo nome è legato allo sviluppo delle animazioni di Space Jam: A New Legacy in uscita a luglio. Sì, il film con LeBron James.

Partiamo dalle statuette: che giudizio dà a questi Oscar? Strani, particolari?

«Strani, sì. Non abbiamo potuto viverli come al solito. Vero, era il mio primo anno come membro dell’Academy. Per una ragione o per l’altra, però, magari perché avevo un cortometraggio qualificato agli Oscar, negli anni precedenti avevo sempre partecipato. Ero, diciamo, nel mezzo delle celebrazioni. Considerando la pandemia e le restrizioni, a questo giro soltanto le persone nominate e i loro ospiti potevano essere fisicamente alla cerimonia. Anche la fase di avvicinamento, va da sé, è stata differente. Lo stesso dicasi per la procedura di voto: c’era una specie di Netflix dell’Academy e ogni settimana veniva aggiunto un film in concorso».

Quasi tutti i film usciti negli ultimi mesi, fra l’altro, erano accomunati da sentimenti e toni cupi, tristi. Il cinema, complice la pandemia, ha smesso di sognare e far sognare?

«In generale, quest’ultimo anno non è stato caratterizzato da grandi film. Penso ai temi, ai messaggi, alla realizzazione anche. Non a caso, diversi grossi titoli sono stati posticipati. E quelli selezionati per gli Oscar erano abbastanza pesanti. Può darsi, parlo per me, che il fatto di doverne guardare tante pellicole in poco tempo abbia influito sulla percezione e sul giudizio. Però, ecco, se prendiamo i film come una forma di evasione dalla realtà direi che quest’anno il trucco non ha funzionato. Anzi, sono state portate sullo schermo realtà ancora più pesanti e difficili. In questo senso, posso dire senza problemi che Nomadland, il vincitore, non mi è piaciuto. Era un film noioso, sebbene abbia compreso il messaggio».

Quando torneremo a fare film più leggeri?

«Giusto e sbagliato, nel cinema, non esistono. Anche perché poi il rischio, sul fronte opposto, è quello di fare film senza un messaggio preciso. Non va bene nemmeno vedere per due ore Godzilla e King Kong, due mostri che si prendono a pugni e basta. Probabilmente, l’agognato ritorno alla normalità contribuirà al cambio di tono».

Se penso al nuovo Space Jam, beh, dico che siamo stati fortunati. Tutta la parte di live action, ovvero le riprese con gli attori veri, si era conclusa nell’estate del 2019

Quanto è stata limitante la pandemia? E quanto ha influito sulla qualità dei film?

«Se penso al nuovo Space Jam, beh, dico che siamo stati fortunati. Tutta la parte di live action, ovvero le riprese con gli attori veri, si era conclusa nell’estate del 2019. Erano rimaste solo poche scene. Con un piccolo problema: l’attore che interpreta il figlio di LeBron James, nel frattempo, è cresciuto tantissimo. È diventato sempre più alto. Quanto alla squadra di animazione, è stato possibile portare avanti ogni aspetto in remoto. A mancare, è evidente, era il morale. Eravamo tutti a distanza, mentre il cinema è un lavoro di gruppo, fisico anche, una continua collaborazione. Dall’11 marzo del 2020, invece, ci siamo infilati in questo tunnel di lavoro individuale e telefonate via Zoom. In un certo senso, non era nemmeno necessario trovarsi a Los Angeles. Dirò di più: prima della pandemia mi mancavano costantemente la Svizzera e l’Europa, durante questi mesi difficili è venuto a mancare anche il conforto degli studios. Il fatto di sentirsi parte di un progetto, di un film».

Cosa significa, per lei, Space Jam?

«Una grandissima opportunità. Non il mio film preferito, ma appunto un modo per imparare. E pure tanto. Live action, animazione 2D e 3D. Senza contare le aspettative, altissime, da rispettare: penso ai fan del primo film, ai tifosi di LeBron James, a quelli che amano i Looney Tunes in generale. Mi è piaciuto l’approccio: il sequel ha cercato di unire diversi mondi. Nel trailer, ad esempio, c’è un accenno a Game of Thrones di cui peraltro sono fanatico. Ho lavorato con professionisti di assoluto valore. Inoltre, questo è il mio primo blockbuster estivo. Spero che le persone possano vederlo al cinema, in sala, perché questo è un film pensato per il grande schermo. Nonostante la Warner Brothers, senza anticiparci nulla, abbia deciso di uscire in contemporanea anche in streaming».

Quanto manca la sala? Non solo in termini di botteghino, ma come esperienza collettiva.

«Manca tanto. Proprio perché il cinema è un’esperienza da fare insieme. E poi la sala scura, le immagini grandi, il suono perfetto. Non è come guardare la televisione o, peggio, lo smartphone. E attenzione: io non ho niente contro le piattaforme streaming. Anzi, mi hanno aiutato tanto durante la pandemia».

C’è una cosa da dire, innanzitutto: la gente ha voglia di cinema, anche fisicamente. Di essere in sala, appunto

Piattaforme contro studios classici: chi vincerà?

«C’è una cosa da dire, innanzitutto: la gente ha voglia di cinema, anche fisicamente. Di essere in sala, appunto. Lo vediamo da queste prime uscite. Detto ciò, le piattaforme sono molto aggressive. E lo sono da tempo. Per dire: impossibile, negli ultimi anni, non aver ricevuto almeno un’offerta di lavoro da parte loro. Tanti talenti, infatti, si sono spostati dagli studi classici a Netflix. Che ha il vantaggio, non indifferente, di essere arrivato per primo rispetto agli altri colossi dello streaming. Gli altri nel frattempo si sono attrezzati: Disney ha la sua piattaforma, Warner Brothers ha HBO Max. In generale, queste dinamiche si riflettono anche sugli Oscar: Netflix ha vinto più di tutti, forte di un marketing eccezionale alle spalle».

Torniamo alla pandemia: film e serie tv ne parleranno a lungo o, per un discorso escapista, cercheranno di distanziarsene?

«Non ho una risposta. Forse, non appena riabbracceremo la normalità ci concentreremo su altri temi. Non so quanto vorremo ricordare questo periodo. Un anno fa, a Los Angeles, ci dicevano che il lockdown sarebbe durato quindici giorni. E invece la pandemia sta durando da quindici mesi se non di più. Allo stesso tempo, però, non dobbiamo commettere l’errore che fu commesso con l’influenza spagnola. Una pandemia, quella, che fece 50 milioni di morti ma che sui libri di storia trova meno spazio rispetto alla Prima e alla Seconda guerra mondiale. E quella pandemia cambiò il nostro modo di vivere, l’igiene, la cultura anche. Penso, quindi, ci sia una certa responsabilità da parte del cinema. Ma che debba esserci anche un equilibrio. C’è questo film, Songbird, uscito in piena pandemia, ambientato nel 2024. La COVID-19 era diventata COVID-24. Ecco, per me è porno pandemia. È un concetto spinto all’estremo, un’esagerazione di una situazione già di suo mostruosa. Quando si fa cinema c’è anche un’empatia da considerare».

Los Angeles è ancora il posto giusto pare fare cinema? Mai pensato a un ritorno in Europa?

«Tornare in Europa è un pensiero fisso, ma è presto per compiere questo passo. Sono qui da dodici anni ormai, i miei contatti sono losangelini e la mia carriera si è sviluppata qui. Ci sono belle opportunità. Poi sì, Los Angeles è una città molto costosa, molto vasta, senza un vero e proprio centro. Alla gente piace perché fa sempre caldo e c’è la spiaggia. La pandemia e il telelavoro, venendo al cinema, hanno creato un fenomeno paradossale: noi, che siamo sotto sindacato, subiamo la concorrenza di altri professionisti in vari angoli del pianeta. Professionisti che possono accettare paghe inferiori. Perciò, non so fino a quando Los Angeles rimarrà un punto di riferimento. Già adesso un sacco di produzioni americane sono all’estero. Canada, Londra, Thailandia. Un anno fa, a inizio pandemia, avrei risposto che non sarebbe cambiato nulla. A metà invece avrei detto: non usciremo mai più di casa. Ora c’è un grosso punto di domanda. Qui ci sono i contatti, c’è ancora la possibilità di confrontarsi faccia a faccia, di incontrare gente. Ma la vita, appunto, costa: in Arizona con 300 mila dollari compri una villa, a Los Angeles ci compri a malapena una cantina».

Dopo il liceo mi ero messo a lavorare un po’, quindi mi sono trasferito in America per l’università. L’ho scelta per la sua vicinanza al mondo Disney

Da Locarno a Los Angeles: come ci è riuscito?

«Fortuna. E impegno. Dopo il liceo mi ero messo a lavorare un po’, quindi mi sono trasferito in America per l’università. L’ho scelta per la sua vicinanza al mondo Disney. E l’ho affrontata come se fosse un impiego, dando il 100% ogni giorno. Negli ultimi due anni ho preparato due film. E quei lavori sono stati giudicati da artisti e studios. Dan Lund, animatore della Disney, è stato il mio primo aggancio nell’industria: siamo rimasti in contatto via e-mail dopo una sua valutazione. È stato lui a offrirmi il mio primo impiego, come assistente di produzione».

Da quel momento, poi, è iniziata la carriera vera e propria.

«Le cose sono andate velocemente. Ho fatto il direttore artistico per un cortometraggio a New York qualificatosi per gli Oscar. Da lì sono finito alla Paramount: nelle prime due settimane mi occupavo di fare la spesa, prendere il caffè e pulire la cucina. Lo facevo al meglio, avevo perfino creato delle etichette personalizzate. Dopo due settimane, mi hanno chiesto di preparare una presentazione di un trailer. Io ho scritto un dossier di 30 pagine. Il giorno successivo mi è stato detto: okay, sei uno dei nostri artisti. E da lì mi sono occupato di tutte le presentazioni dei film in produzione alla Paramount. In seguito, ho avuto un’esperienza a Netflix. Nello specifico una produzione per Warner Brothers. Dopo un anno e mezzo mi sono spostato proprio alla Warner, alla sezione sviluppo. Il mio primo lavoro è stato creare un’immagine per Ryan Coogler e sua moglie, che avrebbero poi prodotto Space Jam. Quando poi è partito quel progetto, sono stato assunto per le animazioni».

Concludendo, il suo è un sogno americano?

«È difficile considerarlo un sogno. Il sogno americano, poi, alla fine è solo una campagna di marketing per abbellire l’America di oggi. Il sogno americano, a ben vedere, siamo noi: la Svizzera. Qui c’è ancora una mentalità da Far West, mi sorprende sempre vedere come vive una fascia, anche ampia, di popolazione. Anche all’interno dell’industria cinematografica puoi trovare persone con posizioni di rilievo ma, per dire, senza una cassa malati. È un po’ come se questo sogno tenesse conto soltanto delle cose più scintillanti, quelle che stanno bene su Instagram e in generale sugli schermi. Ed è un sogno individualistico, un po’ arrogante. Manca il senso di comunità. Io, dicevo, ho avuto fortuna. Ma ci ho messo del mio per essere dove sono. Parlerei, allora, di obiettivi che la realtà americana ti permette di raggiungere».

© CdT/Chiara Zocchetti
© CdT/Chiara Zocchetti
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