L'intervista

Ajla Del Ponte: «Parigi era il mio sogno, ma ora ne inseguirò altri»

I ripetuti infortuni non hanno permesso alla velocista ticinese di qualificarsi per le Olimpiadi, dove andrà soltanto da spettatrice: «Mi sento sempre più tranquilla, perché non ho niente di cui pentirmi. So di aver fatto tutto quello che potevo»
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Fernando Lavezzo
26.07.2024 06:00

A Parigi Ajla Del Ponte ci andrà solo da spettatrice, sfruttando i biglietti che aveva comprato per i suoi genitori. I ripetuti infortuni non le hanno permesso di qualificarsi, nonostante un ultimo disperato tentativo ai campionati svizzeri di fine giugno, appena cinque settimane dopo l’ennesimo strappo muscolare. Con i Giochi ai blocchi di partenza, la sprinter ticinese ci racconta le sue emozioni.

Ajla, come vanno le cose, emotivamente e fisicamente?
«Mi sento sempre più tranquilla, perché non ho niente di cui pentirmi. So di aver fatto tutto quello che potevo per andare alle Olimpiadi. Un infortunio come quello che ho subito il 20 maggio richiede solitamente un decorso di 18 settimane. Essere sulla linea di partenza dei campionati svizzeri il 28 giugno è stato un miracolo. Ora il fisico ha ancora bisogno di recuperare».

La cerimonia d’apertura rappresenta un momento duro per te? O il peggio arriverà con l’inizio delle competizioni di atletica?
«In questi giorni ci sono diversi momenti in cui le cose sono più complicate che in altri. Vedo gli atleti che partono per la Francia, quelli che entrano al villaggio. Non è sempre evidente. Sto bene, ma sono umana. Essere lì era uno dei miei obiettivi e dei miei sogni. Nella vita non va sempre tutto secondo i piani e lo accetto. Guardo avanti. Sto già lavorando per il 2025 e per quello che seguirà».

Le Olimpiadi hanno scandito la tua carriera, dall’esordio con la staffetta di Rio all’esplosione di Tokyo, con il 5. posto nei 100 m. Ripensare a quei momenti ti aiuta o preferisci non farlo?
«È inevitabile riflettere sul passato. Quando lo faccio, provo una sensazione di gratitudine e di fierezza. Debuttare alle Olimpiadi a 20 anni, in una disciplina come l’atletica, non è poco. Quando penso a Tokyo e a quello che ne è scaturito, è normale provare un po’ di amarezza. Subito dopo quell’edizione, mi dissi che uno degli obiettivi per Parigi sarebbe stato vincere una medaglia individuale. Continuerò a battermi per conquistarla in futuro. Magari in un Mondiale. Oppure, chissà, ai Giochi di Los Angeles 2028. La voglia di tornare ai massimi livelli è sempre quella, se non più grande. Una volta che si è protagonisti alle Olimpiadi, si acquisisce la consapevolezza di poterlo fare di nuovo».

Hai sempre avuto questa capacità di rialzarti e guardare avanti oppure è un aspetto che hai scoperto solo negli ultimi anni, tormentati dagli infortuni?
«In me c’è una parte di resilienza innata, che forse deriva dalla mia famiglia. Questa forza si è poi sviluppata molto negli ultimi tre anni. Ad esempio ho imparato ad essere paziente, mentre prima non lo ero affatto. Potrà essere un’arma per il futuro».

Parlaci di quelle cinque settimane trascorse tra l’ultimo infortunio e i campionati svizzeri. Che spirito ti ha animata in quel tentativo estremo di inseguire la qualificazione per Parigi?
«Il team che mi ha seguita in quel periodo ha avuto grande fiducia nel piano e questo è stato decisivo. Per me era come camminare sull’acqua. Loro mi hanno dato i mezzi di cui avevo bisogno per restare a galla. Ho cercato di non pensare troppo, di non badare a tutto quello che poteva andare storto. Insomma: ‘‘Zitta e nuota’’, come dice la pesciolina Dory nel film d’animazione Alla ricerca di Nemo».

Noi atleti siamo un po’ pazzi e anche quelli che ci stanno intorno devono esserlo per poter credere nei nostri sogni

Quanto è importante per te essere circondata da persone che condividono la tua positività?
«Noi atleti siamo un po’ pazzi e anche quelli che ci stanno intorno devono esserlo per poter credere nei nostri sogni. In quelle famose cinque settimane, io e il mio allenatore Laurent Meuwly siamo rimasti realisti. Sapevamo che l’impresa sarebbe stata complicata, ma ci abbiamo provato. Non sarebbe servito a nulla avere al nostro fianco qualcuno che interpretasse il ruolo del cattivo, scoraggiandoci o mettendoci il bastone tra le ruote. Queste sono le persone che bisogna scartare».

In questi anni difficili, hai sempre amato tutto dell’atletica?
«L’atletica mi ha dato tanto, ma negli ultimi tre anni mi ha anche tolto tanto. Non è sempre stato evidente vedere il lato positivo. Ma c’è una cosa di cui sarò sempre immensamente grata. Ovvero le persone che l’atletica mi ha permesso di incontrare – atleti, allenatori, amicizie – e le esperienze che mi ha permesso di fare. A voler essere negativi, può sembrare che negli ultimi tre anni l’atletica non mi abbia dato niente. Ma concretamente non è vero: mi sono avvicinata molto di più ad alcune persone e ho capito che un sacco di gente mi vuole bene e fa il tifo per me. Anche coloro che si potrebbero definire avversarie hanno avuto solo parole positive e di sostegno nei miei confronti».

Dopo una serie di infortuni, è difficile tornare a fidarsi del proprio corpo?
«Sì, certamente. Soprattutto in un caso come il mio, con tre ricadute dello stesso infortunio. È stata proprio questa la barriera da superare in quelle cinque settimane di lavoro prima dei campionati svizzeri. Mi ero appena strappata quasi completamente il muscolo della coscia, già infortunato due volte. Ho dovuto mettere da parte paura e razionalità – che spesso sono la stessa cosa – fidandomi di chi mi diceva: ‘‘Tranquilla Ajla, questa cosa la puoi fare’’».

Quali sono i prossimi passi?
«In questo momento, per me, si tratta di tornare ad apprezzare le piccole cose, gli allenamenti, e circondarmi di persone che mi fanno stare bene. Voglio sentirmi come quando ero una ragazzina e l’atletica era soltanto un gioco. Sarà importante tornare ad apprezzare la competizione senza la pressione di dover fare una performance per qualificarmi a un evento importante come le Olimpiadi».

Cosa farai con i biglietti per le gare di atletica di Parigi che avevi comprato per i tuoi genitori?
«Alcuni li venderò, altri li userò io. Ho deciso di trascorrere qualche giorno ai Giochi per assistere alle competizioni e per godermi un po’ la città, sperando che non faccia troppo caldo. Vivere l’evento, seppur da spettatrice, mi darà una spinta per il futuro».

Sei di Bignasco. Come hai vissuto la devastazione della tua valle a causa del maltempo?
«Ora l’impatto emotivo si è un po’ attutito, ma all’inizio è stato fortissimo. Oltre alla preoccupazione per parenti e amici, ricordo il senso di impotenza. Ero in val Bavona una settimana prima della tragedia. Sono molto legata anche alla Lavizzara. Sono cresciuta a Prato-Sornico guardando mio papà che partecipava ai tornei di hockey. Mio fratello Karim e io abbiamo imparato a pattinare in quella pista, ora distrutta. Lui è diventato un giocatore professionista, io ho iniziato ad amare lo sport proprio lì. Ora stiamo organizzando una corsa di beneficenza per la regione. A breve spero di poter dare più informazioni».

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