Atleti fuorilegge, ma per quanto?
Russia e Bielorussia. Di nuovo sulla bocca di tutti nell’universo sportivo. Ed entrambe protagoniste a Melbourne. Una in negativo, l’altra in positivo. Già, perché gli organizzatori dell’Australian Open avrebbero fatto volentieri a meno dell’endorsement filoputiniano di Srdjan Djokovic, limitandosi ad applaudire le gesta - sotto bandiera neutra - di Aryna Sabalenka, alla prima finale in carriera in un torneo del Grande Slam. A un anno dal visto cancellato al figlio Novak - e dalle tensioni sul terreno dei vaccini anti-COVID 19 -, il serbo ha invece scatenato un’altra bufera diplomatica, facendosi immortalare nei pressi della Rod Laver Arena insieme ai sostenitori di Mosca. Immediata l’indignazione dell’ambasciatore ucraino in loco, Vasyl Myroshnychenko, mentre Tennis Australia si è affrettata a ribadire a giocatori e staff la politica del torneo in merito a bandiere e simboli.
Tentativi di conciliazione
La questione, va da sé, è delicata. Oltre che di strettissima attualità. Il pasticcio combinato dall’entourage Djokovic, per esempio, rischia di essere andato di traverso anche al Comitato olimpico internazionale. Proprio mercoledì sera, con lieve anticipo sulla polemica scoppiata a Melbourne, il suo Comitato esecutivo aveva infatti diramato un comunicato ufficiale per (ri)prendere posizione sullo statuto degli atleti russi e bielorussi, banditi dai principali appuntamenti internazionali a seguito del conflitto in Ucraina. Un segno d’apertura, dal momento che in esso il vertice del CIO indica una possibile via per la reintegrazione. In particolare in vista dei Giochi del 2024. «A nessuno sportivo dovrebbe essere vietato di competere solo sulla base del suo passaporto» ricorda il cuore della nota. Una visione ideale, condivisibile anche, in risposta a quella che viene definita la «missione unificatrice» del Movimento olimpico. Tutto molto nobile. Peccato la partita si giochi su un terreno più prosaico e accidentato. «Di fronte a una guerra così sanguinosa e presente sui media occidentali, la riapertura del dialogo rimane problematica» indica Leo Goretti, storico, direttore de The International Spectator e responsabile del programma di ricerca all’Istituto Affari Internazionali con sede a Roma. «Nell’ultimo anno il CIO ha cercato a più riprese di rilanciare il tema, ma il climax di eventi bellici che si rinnova puntualmente rende asincrono il tentativo di una conciliazione sul campo sportivo». All’orizzonte, suggerivamo, vi sono le Olimpiadi di Parigi. «E in tal senso c’è una precisa esigenza del CIO, visto che il processo di qualificazione nelle varie discipline è prossimo all’avvio o addirittura già scattato» ricorda Goretti. «La riallocazione degli atleti interessati dall’Europa all’Asia, e alle rispettive competizioni continentali, potrebbe costituire una prima soluzione di compromesso». Uno scenario, questo, che era stato preso seriamente in considerazione dalla Federcalcio russa. L’UEFA, d’altronde, ha appena confermato la sua posizione intransigente, togliendo a Kazan la Supercoppa 2023 e non mostrando spiragli a selezioni e club russi nel quadro delle competizioni europee.
«Una condizione scivolosa»
Per sbloccare la situazione, la maggioranza dei membri del Comitato esecutivo del CIO invita per contro le diverse federazioni internazionali a valutare alcune condizioni di ammissibilità. A partire dal vincolo della bandiera neutra, già adottato in alcuni sport individuali come il tennis o il ciclismo. «Nella strategia del CIO figura però un elemento scivoloso e per certi versi preoccupante» osserva Goretti. Per poi precisare: «La riammissione verrebbe accettata solo per quegli atleti che non hanno sostenuto attivamente il conflitto in Ucraina. D’accordo. Ma chi prenderebbe una simile decisione? E su quali basi? Un simile provvedimento era stato pianificato dal Governo britannico per l’ultima edizione di Wimbledon. Il che aveva costretto l’AllEngland Club a chiudere la porta a russi e bielorussi. E ciò anche in segno di protezione. Non dimentichiamo che il CIO parla di misure precauzionali e non di sanzioni nei confronti degli atleti. Tradotto: l’esclusione è altresì dettata dalla volontà di tutelare le persone, evitando di chiedere loro di prendere le distanze dal regime di Mosca. Con tutte le conseguenze del caso sul piano personale e delle rispettive famiglie».
Il concetto di neutralità
Tornando al caso Djokovic, è inoltre lecito chiedersi se sia coerente ed equo chiudere gli occhi verso gli atleti di altre nazionalità che - in modo più o meno sfumato - si sono esposti sulla guerra in corso. Non solo. Goretti rileva come «l’applicazione del principio della centralità della pace - in quanto valore del movimento olimpico - possa essere rimessa in questione anche rispetto ad altri conflitti. Passati e presenti. È l’accusa mossa dagli attori non occidentali verso chi, in altre circostanze, ha preferito nascondersi dietro il concetto di neutralità dello sport». Il tema, sottolinea l’esperto, sarà vieppiù ricorrente «ora che è stato scoperchiato il vaso di Pandora. E alle istituzioni sportive non resterà che barcamenarsi, dato che non esiste un criterio univoco per risolvere la questione una volta per tutte. No, di fronte a episodi contingenti le contromisure saranno necessariamente asimmetriche e disomogenee». Anche perché la discussioni e decisioni avvengono su più livelli. «Il problema di fondo resta» afferma non a caso Goretti: «La neutralità e autonomia dello sport viene logicamente rivendicata dal CIO, chiamato a organizzare eventi “unificatori”. Ma non si può isolare lo sport dal contesto politico-sociale in cui viviamo. E il precedente fra Melbourne e Djokovic, con il dibattito sulle misure anti-pandemiche del Governo australiano, è lì a dimostrarlo. Così come il Mondiale in Qatar ha fatto da cassa di risonanza a diversi temi spinosi. Oggi, dal punto di vista delle relazioni internazionali, regnano frammentazione e incertezza. E queste fragilità, inevitabilmente, si riflettono sulle arene sportive».
La simbolicità delle gerarchie
Chi, in tempi brevi, dovrà sbrogliare la matassa è il Governo francese. Volodymyr Zelensky è stato netto nell’ultimo colloquio telefonico con il presidente Emmanuel Macron: «Gli atleti della Federazione russa non dovrebbero avere posto a Parigi 2024» ha ribadito il leader ucraino. Sia Macron, sia la sindaca di Parigi Anne Hidalgo intendono sposare una linea meno rigida. «Penso che sia un momento dedicato agli sportivi e che non bisogna privare gli atleti della loro competizione. Allo stesso tempo mi auguro che non vi sia una delegazione sotto bandiera russa». Se questo filtro sarà sufficiente per tenere a bada le strumentalizzazioni politiche, però, è tutto fuorché certo. «Le competizioni sportive internazionali - evidenzia Goretti - hanno un elemento comune: determinano una gerarchia fra i partecipanti. Una scala dei valori carica di simbolicità. Pensiamo, banalmente, al medagliere dei Giochi. Non deve dunque sorprendere che Vladimir Putin, negli ultimi 20 anni, abbia scientemente cavalcato la dinamica. A ogni incontro con un medagliato olimpico, il leader di Mosca ha sottolineato come i successi ottenuti fossero un riflesso del ritrovato status internazionale della Russia. La riaffermazione del potere attraverso lo sport, nel caso russo, è insomma un dato oggettivo».
Interpretato così, il mantenimento del veto per gli atleti appare dunque giustificato. Goretti fornisce la sua chiave di lettura: «Negli sport di squadra, con le selezioni nazionali che finiscono per incarnare il proprio Paese, la presenza russa rimane critica. Un reintegro, di riflesso, mi sembra molto complicato. E la posizione dell’UEFA, al proposito, non mi stupisce. Diverso il discorso a livello individuale, con il ritorno degli atleti russi e bielorussi che potrebbe rivelarsi più semplice e finanche opportuno. Credere di poter ottenere qualsivoglia risultato politico per mezzo di questi provvedimenti, tuttavia, è fuorviante. Detto altrimenti, la visione del Cremlino non cambierà a fronte di rinnovate esclusioni. Anzi, in Patria continuerà a prevalere la narrazione del popolo oppresso e punito ingiustificatamente dalle massime organizzazioni internazionali».