Basket

Steve Kerr, l'allenatore vincente che scuote le coscienze

Il coach dei Golden State Warriors, finalisti in NBA, è tra gli sportivi americani più noti per il proprio impegno civile – Il suo attacco al Senato dopo la strage di bambini nella scuola di Uvalde, in Texas, ha fatto il giro del mondo
Fernando Lavezzo
02.06.2022 06:00

«Non si può andare avanti così, ma a Washington si voltano dall’altra parte». Venerdì scorso, con le lacrime agli occhi, il coach dei Golden State Warriors, Steve Kerr, ha pronunciato frasi durissime ricordando i 19 bambini uccisi nella scuola di Uvalde, in Texas. Kerr, il cui padre venne assassinato nel 1984 a Beirut da due estremisti islamici, è tra gli sportivi americani più noti per il proprio impegno civile. Un vincente che vuole scuotere le coscienze.

Ai primi di ottobre del 1995, Steve Kerr prese un pugno in faccia da Michael Jordan. I due si stavano preparando per un nuovo campionato NBA con i Chicago Bulls. Jordan, motivatissimo dopo quasi due anni trascorsi a fare altro, voleva mettere alla prova i suoi nuovi compagni. Dei Bulls dei primi tre titoli (1991, 1992, 1993) era rimasto solo Scottie Pippen. Gli altri, beh, dovevano ancora imparare alcune cose. «Con Mike ogni allenamento era una guerra», ha raccontato Steve Kerr, specialista del tiro da tre punti. Sì, «MJ» pretendeva il massimo da tutti. C’era un titolo da riconquistare.

Quel giorno d’inizio ottobre, Jordan sembrava avercela proprio con lui, con Steve, scelto da coach Phil Jackson per marcarlo. «Mi stava facendo il culo», ha ammesso Kerr. Jackson, capito l’andazzo, cercò di calmare Mike fischiandogli ogni tipo di fallo. «Ah sì?», pensò Jordan. «Ora te lo faccio vedere io un vero fallo su Kerr».

Steve è paziente, ma molto competitivo. «A un certo punto scatto», dice lui. Ecco. Le provocazioni di Jordan lo fecero scattare. Un colpo al petto. Al petto di sua maestà Michael Jordan. Il pugno di «MJ» non impiegò molto a centrare Steve in un occhio. Più tardi, Jordan gli chiese scusa. Kerr, lo specialista del tiro da tre, si era guadagnato il suo rispetto.

Otto titoli tra campo e panchina

Trascinati da Jordan, i Bulls vinsero altri tre titoli consecutivi. Sulle finali del 1997 è impresso il nome di Steve Kerr, autore del canestro decisivo. «Michael non se la sentiva di tirare e suggerì di puntare su di me», scherzò alla festa di fine stagione. Poi, nel 1998, Jordan si ritirò di nuovo. Kerr passò ai San Antonio Spurs, dove conquistò il suo quarto titolo di fila. Con i texani vinse anche nel 2003, chiudendo così la sua carriera da giocatore. La sua percentuale nel tiro da tre è la più alta di sempre nella storia della NBA: 45,40%. Nel 2014, i Golden State Warriors lo ingaggiarono come allenatore, dando inizio a una nuova storia di successo: sei finali e tre titoli in otto stagioni. Titoli che potrebbero diventare quattro, Boston Celtics permettendo.

Uno sfogo virale

Quando giocava a San Antonio, Texas, Steve Kerr prese posizione contro la guerra in Iraq. In un’epoca «pre-social», le sue parole ebbero poca risonanza, ma i giornali locali ricevettero numerose lettere in cui veniva accusato di antipatriottismo. Da quando allena, la sua voce si è fatta molto più forte. Il suo ultimo sfogo, dopo la strage di Uvalde, è diventato virale. Anche la stella dei Warriors, Steph Curry, ha invitato i tifosi a riflettere su quelle parole «potenti e significative».

«Oggi qualsiasi domanda sul basket non ha importanza», ha detto Kerr lo scorso venerdì in conferenza stampa, prima del match di playoff contro Dallas, città che dista qualche centinaio di chilometri da Uvalde. «Negli ultimi dieci giorni, abbiamo avuto anziani neri uccisi in un supermercato a Buffalo, fedeli asiatici uccisi nel sud della California, ora abbiamo bambini uccisi a scuola. Quando faremo qualcosa?».

Kerr ha riservato le critiche più dure ai senatori che si sono rifiutati di votare una legge che impone controlli più severi sui precedenti per i possessori di armi: «Il 90% degli americani, indipendentemente dal loro credo politico, vuole controlli più stringenti. Invece siamo tenuti in ostaggio da cinquanta senatori».

Nel giugno del 2016, nel bel mezzo delle finali NBA contro i Cleveland Cavaliers, il coach dei Warriors disse più o meno le stesse cose dopo la strage al nightclub Pulse di Orlando. «È più facile ottenere una pistola che una patente. Ed è folle».

L’assassinio di Malcom Kerr

Steve Kerr sa di avere a disposizione una piattaforma globale e sente di dover dire qualcosa. Soprattutto su un tema come quello delle armi: «Perché è un enorme problema negli Stati Uniti e perché mio padre è morto così».

Malcom Kerr, rettore della American University di Beirut, venne ucciso il 18 gennaio 1984 appena fuori dal suo ufficio, con due colpi di pistola alla testa sparati da due estremisti islamici. «Era l’epoca dei primi attentati terroristici contro gli americani in Medio Oriente. L’ambasciata aveva già lasciato Beirut, ma l’università era ancora aperta. Così mio padre diventò uno degli americani più importanti rimasti. E quindi diventò un bersaglio».

Steve aveva 18 anni e giocava per l’università dell’Arizona. «Ricevetti una chiamata nel cuore della notte da un amico di famiglia». Il giorno dopo la morte del padre, tornò ad allenarsi. «Il basket era l’unica cosa che poteva distrarmi da quello che era successo. Ripensandoci, penso che mio padre abbia avuto un’enorme influenza sul mio modo di allenare. Era un osservatore. Mi ha lasciato imparare e sperimentare. Cerco di dare molto spazio ai miei giocatori e di parlare al momento giusto».

Il nemico Donald Trump

Dopo i titoli vinti dai Warriors nel 2017 e nel 2018, Steve Kerr appoggiò la decisione dei suoi giocatori di boicottare il tradizionale ricevimento dei campioni NBA alla Casa Bianca in segno di protesta contro Donald Trump. Come è facile immaginare, Kerr non ha mai risparmiato critiche all’ex presidente. Di conseguenza, Steve è diventato un bersaglio di «The Donald». In particolare nell’ottobre del 2019, nel bel mezzo di un caso diplomatico tra la NBA e la Cina. Tutto iniziò quando l’amministratore degli Houston Rockets, Daryl Morey, scrisse un tweet in solidarietà con le proteste di Hong Kong. Da quel momento, giocatori e dirigenti della lega vennero chiamati a esprimersi sul tema. Kerr non prese posizione: «Sto cercando di leggere e di capirne di più. Trovo più facile esprimere le mie opinioni su temi che conosco».

«Ho visto Steve Kerr in televisione, sembrava un bambinetto spaventato», il velenoso commento di Trump. «Tremava, non rispondeva alle domande. Eppure, quando c’era da parlare male degli Stati Uniti non si è mai tirato indietro».

In seguito, Kerr si è pentito di quel suo silenzio: «È stata probabilmente l’unica volta nel corso degli anni in cui non ho parlato con il mio cuore. Le domande non sono sempre facili e quella l’ho gestito davvero male. Se potessi tornare indietro, prima di tutto sosterrei Daryl Morey e la sua libertà di parola. Se segui il tuo istinto e il tuo cuore, generalmente dici la tua verità e questo ti farà sentire bene».

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