Paso doble

Béla Guttmann e la maledizione del Benfica

Quarant’anni fa, il 28 agosto del 1981, moriva il leggendario allenatore ungherese, un vero giramondo del pallone
Béla Guttmann in uno scatto del 1962. © AP/Leonard Brown
Stefano Marelli
28.08.2021 06:00

Quarant’anni fa, il 28 agosto del 1981, moriva Béla Guttmann, leggendario allenatore ungherese. Celebre la sua «maledizione» nei confronti del Benfica, squadra che portò a vincere due Coppe dei Campioni nel 1961 e 1962.

«Mi avevate promesso un premio se avessimo bissato il successo in Coppa dei Campioni, adesso voglio i miei soldi». «Vede, signor Guttmann – rispose il presidente del Benfica – la dirigenza è piuttosto delusa per il terzo posto in campionato». «Il Benfica non ha un culo abbastanza grande per sedersi su due poltrone. Ripeto, datemi la grana che mi spetta». «Può scordarsela». «Per i prossimi cent’anni – tuonò allora il magiaro – nessuna squadra portoghese sarà campione continentale due volte di fila. E il Benfica non vincerà mai più una coppa europea».

Era l’estate del 1962, la più efficace maledizione della storia del calcio era stata lanciata, e Béla Guttmann levò il disturbo ruggendo. A piantar baracca e burattini era abituato. La prima volta – quattro decenni prima – aveva solo 22 anni: l’ascesa al potere dell’Ammiraglio Horty, feroce antisemita, aveva costretto il ragazzo ad abbandonare l’Ungheria e l’MTK, la squadra con cui, da efficace difensore-centrocampista, aveva vinto due titoli nazionali. Aveva trovato rifugio a Vienna, nelle file dell’Hakoah, sodalizio di tradizione ebraica che sulle maglie biancazzurre sfoggiava con orgoglio la Stella di Davide.

Laureatosi in psicologia e vinto il campionato austriaco nel 1925, Béla partì coi compagni per una serie di amichevoli negli USA, dove di soccer capivano poco, ma dove giravano così tanti soldi da convincere quasi tutti, al termine della tournée, a stabilirsi Oltreoceano. Guttmann – che aveva firmato per i Giants – a New York si ambientò benissimo, guadagnò un monte di quattrini e ne investì gran parte in borsa, non potendo prevedere il crollo di Wall Street che, alla fine del decennio, lo lasciò quasi in braghe di tela. Poté pagarsi il ritorno in Europa soltanto perché, negli anni del Proibizionismo, aveva messo su uno speakeasy che spacciava alcol nel retrobottega.

In fuga dai nazisti

Divenuto allenatore, le stimmate da globetrotter di Béla Guttmann si fecero ancor più evidenti: dopo un paio d’anni di gavetta alla guida del vecchio Hakoah, di nuovo abbandonò Vienna, stavolta per i Paesi Bassi, dove gli affidarono la panca dell’Enschede. Quando gli olandesi finirono i soldi, rimpatriò, ma non fece nemmeno in tempo a disfare la valigia che gli toccò ripartire in tutta fretta. La Germania nazista infatti proprio in quelle settimane completò l’Anschluss, i club ebraici vennero cancellati e Guttmann dovette riparare nella natìa Ungheria, dove la situazione pareva più tranquilla. Ma si sbagliava: come tecnico dell’Ujpest fece appena in tempo a vincere un campionato e una Coppa Mitropa e subito si ritrovò a spaccare pietre in un lager di lavori forzati, anticamera dei campi di sterminio. Si salvò solo grazie a una fuga durante il trasferimento in treno ad Auschwitz, dove perse il padre, una sorella e altri familiari.

Tragedie non facili da superare, e che contribuirono a indurire un carattere già non facile. Nei decenni successivi fu sempre più problematico trattare con Guttmann, che collezionò esoneri e liti furibonde. Nel 1945, finita la guerra, ruppe quasi subito coi dirigenti del Vasas che, credendolo morto, rischiarono una sincope vedendolo apparire al campo postulando un impiego. E breve fu pure l’esperienza coi romeni del Ciocanul Maccabi Bucarest, che lo retribuivano con frutta e verdura. Stanco della dieta vegetariana, rincasò per conquistare un altro titolo magiaro con l’Ujpest, che presto abbandonò per accasarsi presso i rivali cittadini del Kispest (la futura Honved), più prodighi di fiorini. La squadra costituiva l’ossatura della Nazionale ungherese che avrebbe incantato il mondo per un decennio. Il progetto però fallì perché Guttmann – venuto alle mani col Divino Puskas – levò le tende a metà stagione.

Italia, Olimpiadi e Sudamerica

Nel 1949 prese la via dell’Italia. Sbarcò a Padova dove sorprese tutti con metodi di preparazione innovativi e rinunciò all’ingaggio fisso: preferiva essere pagato in base ai punti conquistati, che nella prima parte del torneo furono moltissimi (una sconfitta in 13 gare). Ma il rendimento dei patavini subì una clamorosa flessione: nei successivi 14 turni le gare perse furono 13 e Guttmann venne licenziato. Le motivazioni non parevano di carattere tecnico, ma avevano a che fare con un presunto comportamento scorretto. La verità emerse qualche mese dopo, quando Béla allenava la Triestina: risultò che aveva intascato una mazzetta per il trasferimento al Padova del portiere croato Monsider. Venne squalificato per l’intera stagione, con gli Alabardati salvi per un soffio, e fallimentare fu pure il campionato successivo, che vide Guttmann di nuovo esonerato.

Poche settimane dopo – primavera 1952 – integrò lo staff tecnico dell’Ungheria in partenza per le Olimpiadi di Helsinki, dove avrebbe conquistato l’oro. Il mondo assistette incantato alle prodezze di Czibor, Palotàs, Kocsis, Hidegkuti, Bozsik e naturalmente Puskas. Perfino in Sudamerica si scatenò la caccia agli allenatori magiari, portatori di un verbo tattico rivoluzionario. Fu così che Béla trovò un ingaggio al Quilmes, seconda divisione argentina, che considerava il trampolino ideale per raggiungere il Boca. Ma il grande salto restò un sogno: troppo il divario fra la disponibilità del club e le richieste dell’ungherese, che tornò in Europa all’Apoel Nicosia. Il clima mediterraneo, dissero i medici, avrebbe giovato alla cagionevole salute di sua moglie. La povera donna, però, della salsedine non sentì nemmeno il profumo: due mesi più tardi il marito la trascinò nella nebbia di San Siro. Il Milan, infatti, gli aveva offerto la panchina occupata fino a novembre dall’anonimo Morselli. Quell’anno i rossoneri non andarono oltre il terzo posto, ma la stagione successiva, grazie ai soldi del neopresidente Andrea Rizzoli, al genio di Schiaffino e all’affidabilità di Cesare Maldini, riuscirono a conquistare uno scudetto meritatissimo (1955). Peccato per Guttmann, sollevato dall’incarico dopo 19 giornate con la squadra prima in classifica a +5 sulla seconda. Colpa del suo carattere ruvido – che lo rendeva antipatico ai Liedholm e Nordhal – ma anche perché aveva fatto a pugni in un night col connazionale Czeizler, tecnico della Sampdoria.

Un modello per il Brasile

Guttmann non riuscirà a portare a termine neanche la stagione successiva, alla guida del Lanerossi neopromosso, per colpa di un tragico incidente occorsogli poco prima di lasciare Milano, quando in auto aveva investito due scolari uccidendone uno. Timoroso delle conseguenze, l’ungherese abbandonò Vicenza e l’Italia alla vigilia del processo. Sbarcò a Madrid, firmò per l’Atletico, ma di nuovo svanì nel nulla prima ancora di cominciare ad allenare. Ricomparve in Brasile qualche mese dopo, come direttore tecnico della Honved ingaggiata per una tournée. Pochi componenti di quella spedizione fecero uso del biglietto di ritorno: proprio in quei giorni Budapest fu invasa dai carri armati sovietici, e parecchi fra dirigenti e calciatori decisero di non rimpatriare. Guttmann firmò per il San Paolo, che condurrà al titolo Paulista facendolo giocare col 4-2-4 che aveva reso invincibili gli ungheresi. Il modulo, sconosciuto a quelle latitudini, piacque così tanto che l’oriundo napoletano Feola – DT del San Paolo e CT verdeoro – decise di imporlo alla Seleçao che l’anno successivo conquistò in Svezia il suo primo Mondiale.

Il Portogallo è approdo naturale per chiunque torni dal Brasile, e Béla non fa eccezione. Ingaggiato dal Porto, vince il titolo lusitano al primo colpo superando il Benfica per la sola differenza reti. I dirigenti lo adorano e alla festa celebrativa gli regalano un logo del club tempestato di diamanti. Lui ringrazia, chiude in valigia il prezioso omaggio e, in perfetto stile Guttmann, annuncia che la stagione seguente andrà ad allenare proprio i più acerrimi rivali dei Tripeiros. Giunto al Benfica, taglia 20 giocatori, promuove molti ragazzi del vivaio e acquista il bomber José Torres, che sarà fondamentale per la conquista di due campionati e della prima Coppa dei Campioni. Per poter bissare il maggior trofeo continentale, ad ogni modo, serve un rinforzo, e Guttmann lo individua in Eusebio, che con Torres farà sfracelli.

La profezia di Lisbona

Ed eccoci di nuovo all’estate del 1962, quando a un Béla Guttmann ormai 63.enne manca solo di lanciare un anatema, e non si lascia sfuggire l’occasione. Da ormai 60 stagioni, la maledizione che incombe sul Benfica gode ancora di perfetta salute: le Aquile, dopo la famosa profezia, non hanno mai più alzato trofei continentali, perdendo 3 finali di Coppa UEFA (1983, 2013 e 2014) e 5 di Coppa dei Campioni (’63, ’65, ’68, ’88 e ’90). A spezzare il maleficio non bastò nemmeno il pellegrinaggio di Eusebio al Zentralfriedhof di Vienna, sulla tomba dell’uomo che lo scoprì e ne fece una leggenda. Era la vigilia della finale fra Milan e Benfica del 1990. La Pantera Negra posò dei fiori, pregò, e chiese perdono al suo vecchio mentore a nome di tifosi e dirigenti. Ma invano: ad alzare al Prater la Coppa dalle grandi orecchie furono i rossoneri.

Lasciata Lisbona, il magiaro allenò ancora una dozzina d’anni un po’ ovunque senza lasciare tracce, e si ritirò quando – dopo la morte in campo di un giocatore a cui erano letteralmente esplosi i reni – fu accusato di sottoporre i propri ragazzi a pratiche dopanti. Istrionico, picaresco, dandy, smargiasso, esoso, tormentato e spendaccione, Béla Guttmann concluse la sua romanzesca vita il 28 agosto del 1981, proprio quarant’anni fa.