Belgio-Svizzera con gli occhi di Danijel Milicevic

Dici Belgio-Svizzera e, quasi per osmosi, pensi a lui. All’eroe dei due mondi. Nato in Ticino, affermatosi a nord fra birre e moules frites, Danijel Milicevic è la nostra guida d’eccezione. L’amichevole di mercoledì a Leuven (20.45) non ha segreti. «Mili» conosce benissimo entrambi gli schieramenti. E conosce, va da sé, il contesto particolare in cui giocheranno le squadre. «La situazione al momento è pesante» riconosce l’attuale esterno del Seraing, 34 anni e ancora tanta voglia di calcio. «Il Paese è in lockdown oramai da diverse settimane, ristoranti e commerci sono chiusi e la tensione è palpabile. Il Belgio, inteso come nazionale, resta un simbolo ma è complicato parlare di calcio quando sei nel mezzo di un’ondata. Di più, qui le cose vanno peggio, molto peggio rispetto alla Svizzera».
«Un simbolo di unità»
Complicato, ma possibile. Il calcio prova ad essere assieme diversivo e svago, vitamina per superare tempi così grami. «La nazionale belga, in passato, aveva svolto un ruolo davvero essenziale nell’unire le varie anime del Paese» prosegue il nostro interlocutore. «Parlo dei valloni e dei fiamminghi, che non si sono mai amati, ma anche dei figli di immigrati che, grazie al pallone, si sono finalmente sentiti integrati. I risultati ottenuti negli anni, è chiaro, hanno aiutato. Questa è una generazione d’oro, ricca di talento. Di riflesso, è stata capace di coinvolgere i tifosi. Il merito, a mio avviso, va in primis al vecchio allenatore: Marc Wilmots. Riassumendo, non è un caso se il Belgio è al comando del ranking FIFA. Il movimento cresce, alle basi c’è un progetto solido».
«È mancato l’acuto»
E la Svizzera? Spesso, proprio il Belgio è stato usato come pietra di paragone. Della serie: se ce la fanno loro, con poco più di 11 milioni di abitanti, perché mai non dovremmo farcela anche noi? «La crescita con Petkovic c’è stata» spiega Milicevic. «Forse è mancato l’acuto, penso ai vari ottavi di finale buttati via fra Mondiali ed Europei. E, forse, il Belgio ha pensato subito in grande a differenza della Svizzera, che ha una coscienza differente. Anche perché il calcio non è lo sport nazionale: deve vincere la concorrenza dell’hockey o dello sci, per dire».
«Una pizzeria per crescere»
Dopo aver flirtato, in estate, con il Lugano Danijel adesso è di nuovo in Belgio. È ripartito dalla B, con un progetto «serio e avvincente». E ancora: «Dico grazie ai bianconeri perché mi hanno permesso di restare in forma. Perché non ho firmato? Diciamo che, ora, sono felice qui. Conoscevo il presidente, la squadra ha qualità, energia e voglia. Io cercherò di dare una mano nella speranza di centrare l’obiettivo: salire in A. Sarebbe un’impresa storica, ma in fondo me ne intendo: in Belgio ho già due promozioni alle spalle oltre ad un titolo, il primo nella sua storia, con il Gent».
Intanto, in un certo senso Danijel si è portato avanti. Aprendo, proprio a Gent, una pizzeria. «Adesso ovviamente siamo chiusi, ma ce la caviamo con il servizio a domicilio. Ho deciso di lanciarmi in questa avventura perché Gent è una città giovane, dinamica, piena di vita: quando giocavo qui mi dicevo che sarebbe stato bello, un giorno, aprire un locale. Detto, fatto. La vita di un calciatore fondamentalmente può essere divisa in due fasi: c’è un prima, legato a partite, allenamenti e carriera, e c’è un dopo. A quel dopo, prima o poi, bisogna pensarci. Io l’ho fatto, ne sono felice. La pizzeria non è niente di trascendentale, ma è un punto di partenza. Noi calciatori siamo privilegiati: dobbiamo soltanto pensare a giocare, per tutto il resto c’è un club e un’organizzazione che rimediano. Ora che sono un imprenditore, beh, il peso di ogni decisione ricade su di me. È un’occasione per crescere e maturare». Belgio-Svizzera, per contro, è un’occasione per un banale pronostico: «Dico che può scapparci un pari».