Beppe Bergomi: «E pensare che il Milan mi lasciò a casa»

Un campione autentico, capace di vincere un Mondiale a soli 18 anni dopo aver annullato in finale nientemeno che Karl-Heinz Rummenigge. Beppe Bergomi, per tutti «lo zio», ha segnato indelebilmente il calcio italiano e il destino dell’Inter. La sua è una storia fatta di valori, oltre che di risultati sportivi. Lo abbiamo incontrato.
Signor Bergomi, iniziamo dal libro «Bella Zio» che ha voluto presentare a Lugano. Un romanzo di formazione, scritto da Andrea Vitali, che non parla del campione ma dei suoi primi 18 anni di vita. Perché?
«Ormai sono trascorsi 20 anni da quando ho appeso le scarpette al chiodo. E in questo periodo, lavorando a stretto contatto con diversi giornalisti, a più riprese mi è stato chiesto di scrivere un libro. Ma che senso avrebbe avuto raccontare di vittorie, record e numeri della mia carriera, in fondo accessibili a tutti nell’era di internet? Tramite lo piscopedagogista sportivo Samuele Robbioni ho quindi conosciuto lo scrittore Andrea Vitali, che mi ha proposto di elaborare un romanzo di formazione, incentrato sui miei primi 18 anni di vita, quelli che mi hanno portato a vincere il Mondiale del 1982. E l’idea mi è piaciuta»
Qual è, dunque l’obiettivo, dell’opera?
«Far capire cosa si nasconde dietro al Bergomi calciatore, quello noto a tutti. E a mio avviso all’interno di questa storia sono veicolati dei bei messaggi. In particolar modo verso i giovani. Mi spiego: proprio l’altra mattina una persona mi ha chiesto di firmare tre libri, destinati ad altrettanti nipoti. “Il primo – mi ha detto – è a posto, gli altri due un po’ meno, poiché hanno smesso di giocare a calcio e hanno scoperto altro. Scrivi loro qualcosa”. Ecco, l’auspicio è che Bella Zio funga anche da strumento positivo».
Chi era Beppe Bergomi prima di diventare «lo zio»?
«Un ragazzo semplicissimo, nato nella provincia di Milano e con una famiglia molto presente, che gestiva un distributore di benzina e un servizio di autonoleggio. Ma in questa fetta d’esistenza c’è anche la scuola, la vita dell’oratorio e i primi passi nelle giovanili della Settalese, la squadra del mio paese. O ancora i provini al Milan».


Come i provini al Milan?
«È proprio così. Io provengo da Settala, che ai tempi era abitato per il 70% da milanisti. Compresa la mia famiglia. Presi parte a questi provini, che andarono molto bene: in poco tempo convinsi infatti i rossoneri ad ingaggiarmi dalla Settalese. Peccato che degli esami medici mi diagnosticarono i reumatismi nel sangue. E il Milan decise di lasciarmi a casa. Io però guarii in fretta e un paio d’anni dopo decisi di fare altri provini: questa volta all’Inter».
«Bella Zio» è un libro che parla di valori e di normalità. Nel calcio attuale c’è ancora spazio per qualità simili? O nel mondo delle superstar l’eccesso e la mania di protagonismo sono fenomeni ineluttabili?
«Certo, si possono trovare. Ogni giocatore possiede una chiave d’entrata. Quello che purtroppo è cambiato è il rapporto con i calciatori. Una volta ad Appiano Gentile non c’erano barriere, i tifosi assistevano ai tuoi allenamenti a bordo campo. Il contatto, anche umano, c’era. È vero, il calcio e il mondo nel frattempo sono cambiati e tanti giocatori sono oramai delle vere e proprie aziende personalizzate. Ma ripeto, gli esempi positivi – in particolare in termini di senso di appartenenza – non mancano. Penso agli interisti Javier Zanetti e Ivan Ramiro Cordoba. Come pure, a modo suo, Francesco Totti. Tra chi è ancora in attività un punto di riferimento è invece Giorgio Chiellini: una persona che si è laureata nel pieno della carriera, un leader dall’attaccamento fortissimo alla maglia. Profili, quelli appena menzionati, che devono fungere da modello positivo per i ragazzi. Ma, appunto, molto passa dalla capacità di saperli avvicinare il più possibile alla gente».
A proposito di valori. La sua Inter oggi è allenata da uno juventino doc, Antonio Conte. Che effetto le ha fatto sentire il pubblico di San Siro osannare il mister nelle ultime partite dopo che il suo arrivo era stato accompagnato da scetticismo e financo disprezzo?
«Con tutto il rispetto per quelli che non la pensano come me, non ho mai ritenuto problematica la scelta di Conte. E lo dice uno che ha vinto all’Inter con in panchina Giovanni Trapattoni, ex allenatore della Juventus e già giocatore del Milan. Anche qui, sicuramente si trattava di un’epoca diversa, contraddistinta da meno accanimento tra tifoserie. Ma bisogna andare oltre a certi steccati. Antonio – che sostengo – è un professionista serio, preparato, che s’immedesima in tutto e per tutto nel club che allena, diventandone il primo tifoso. Il passato invece è passato e tutti dovrebbero essere in grado di superarlo. Ne so qualcosa anche in quanto telecronista».


In che senso?
«Di recente ho avuto la fortuna di commentare la sfida tra Shakhtar e Atalanta in Champions. Ne è uscita una telecronaca bellissima. Ma, al di là dei nostri responsabili, non è interessato a nessuno. Se però avessi fatto una telecronaca simile con in campo la Juve o l’Inter sarebbe stato il finimondo. Ecco: il nostro calcio è malato anche da questo punto di vista».
Le sarebbe piaciuto giocare nell’Inter di Conte?
«Come no! Sarebbe stato un allenatore perfetto, con la sua difesa a 3. Io, abituato a stare sul centro-destra. In questo Osvaldo Bagnoli fu un precursore per il sottoscritto. Ricordo ancora che in quell’Inter Paolo Tramezzani – che voi conoscete bene qui a Lugano – giostrava a sinistra nel terzetto arretrato. E mister Bagnoli – che era avanti – lo esortava a stare alto, mentre a mio avviso sarebbe servito di più basso, così da avere una retroguardia più compatta».
Restiamo alla sua carriera in nerazzurro. Cosa prova nel tornare a Cornaredo, lo stadio dove iniziò a maturare una delle delusioni più cocenti della recente storia interista? L’eliminazione dalla Coppa Uefa per mano del piccolo Lugano...
«Per me le sconfitte brucianti restano altre, anche se – considerate le forze in campo – quell’eliminazione fece male. Ebbi comunque la fortuna di viverla più serenamente di altri compagni, dal momento che a San Siro, nella gara di ritorno, non giocai a differenza della sfida pareggiata a Cornaredo. Nel passato, fatto meno di gironi e più di scontri secchi, se non facevi attenzione rischiavi di incappare in brutte sconfitte. Ed è quanto capitato a noi nel settembre del 1995».


I nostri due paesi intanto si incontreranno agli Europei al via al prossimo giugno. Lei da che parte sta? L’Italia con la Svizzera ha pescato bene o deve fare attenzione?
«Viste le combinazioni possibili – e Germania, Francia e Portogallo ne sanno qualcosa – è un buon girone. Per altro tenuto conto delle tre partite da disputare in casa. Con la Svizzera però occorrerà molta attenzione. A maggior ragione alla luce della rivalità esistente. Senza dubbio i rossocrociati sono l’avversario più pericoloso del gruppo. Anche perché sono allenati da Vladimir Petkovic e dal vice Manicone, i quali conoscono bene il nostro calcio, avendolo vissuto in prima persona. Per non parlare delle grandi motivazioni degli elvetici, delle quali bisogna diffidare».
La selezione di Mancini può ambire al successo finale o ci sono nazionali più attrezzate?
«L’Italia può essere la sorpresa dell’Europeo. Rispetto al passato gioca un calcio propositivo, meno attendista. Contro qualsiasi avversario. Roberto, che è un ct molto intelligente, ha saputo tirare fuori il meglio da una squadra finalmente ricca di talento. Un talento che si ha avuto il coraggio di mandare in campo. Ora come ora solo la Francia mi sembra una nazionale superiore».
Lei un grande torneo lo ha vinto a soli 18 anni ma giocando da veterano: il Mondiale del 1982. Qual è il segreto per ottenere un trionfo simile?
«Il talento non basta ed è la storia italiana a insegnarlo. Quando l’Italia è salita sul tetto del mondo è perché poteva contare su un grande gruppo, su giocatori che stavano bene assieme e su un condottiero – Bearzot in Spagna – capace di scegliere gli uomini giusti. Parlavo della nostra tradizione, che è sempre stata caratterizzata da una particolare cura della fase difensiva. Sarà banale, ma uno dei grandi segreti per vincere e andare avanti è essere bravi a non prendere gol».