L’intervista

«Con l’Italia servirà un miracolo, ma i miracoli, nel calcio, esistono»

L'ex Lugano affronterà gli Azzurri campioni d'Europa ai playoff di Qatar 2022
Massimo Solari
21.03.2022 21:46

La piccola Macedonia del Nord ha già scritto la storia. Qualificandosi e partecipando per la prima volta, l’estate scorsa, a un Europeo. La selezione balcanica ora insegue un altro sogno. Una missione impossibile. Forse. Giovedì, a Palermo, è in programma la semifinale dei playoff mondiali contro la favoritissima Italia. In palio Qatar 2022. E la gloria. «Vogliamo giocarcela» promette Ezgjan «Gianni» Alioski, stella dei Leoni Rossi.

Signor Alioski, innanzitutto come procede l’avventura in Arabia Saudita con l’Al-Ahli? Gli ultimi risultati - e il 10. posto in classifica - sono forse sotto le attese...
«È un campionato difficile. A dispetto di quanto si possa pensare superficialmente in Europa. Ogni squadra, per esempio, può schierare sette stranieri. Molti dei quali provengono dal Sudamerica. Le formazioni di vertice, inoltre, partecipano puntualmente alla Champions League asiatica. Penso all’Hilal. A mia volta, nei primi mesi a Gedda, ho faticato a prendere le misure della lega. Da calciatore europeo ho dovuto fare i conti con una mentalità differente».

Può essere più preciso?
«Non allenarsi due volte al giorno, ma solo la sera, mi ha inizialmente destabilizzato. Anche solo per una questione di routine e preparazione sportiva. Per quanto mi riguarda, quindi, ho preferito ovviare a questi vuoti con un personal trainer. Per il resto, come suggerivo, bisogna accettare dei ritmi completamente diversi da quelli europei: la vita, in Arabia Saudita, si accende nel pomeriggio. E il sottoscritto ha impiegato un po’ di tempo per abituarsi. Gedda? È una città stupenda. Per altro affacciata sul mare».

Il suo contratto prevede altre due stagioni a Gedda. Che si fa?
«Nel calcio non si sa mai. In fondo lo stesso trasferimento all’Al-Ahli è stato una grande sorpresa. Onestamente, a 30 anni e a seguito dell’avvincente parentesi al Leeds non me lo sarei mai aspettato. Non la scorsa estate quantomeno».

Il campionato in Arabia Saudita non è così facile. I primi mesi all'Al-Ahli ho faticato

A fronte di queste considerazioni, ci permettiamo allora di chiederle se non si è pentito di aver lasciato Elland Road, rinunciando a un prosieguo di carriera nel Vecchio continente. Nemmeno un anno fa, per dire, il Leeds sbancava l’Ethiad Stadium e grazie a un suo assist allo scadere batteva il City di Pep Guardiola...
«Di nuovo: le strade del calcio sono infinite. Ma tante sono altresì le figure in grado di indirizzare il percorso di un giocatore. Un business, già. E sarei un bugiardo se dicessi che la Premier - dove per altro sarei potuto rimanere - non mi manca. O che non fossi interessato a un’avventura in Serie A o Bundesliga. Detto ciò, quando prendi certe decisioni - e la mia non era scontata - devi soppesare tutti gli aspetti. Per esempio che la carriera di un calciatore non è poi così lunga. Insomma, ho anche riflettuto su cosa fosse meglio per il mio futuro. Le infrastrutture, poi, sono al top in Arabia Saudita. Meglio di quelle europee. E anche i tifosi mi hanno piacevolmente sorpreso. In casa, ogni partita è seguita da 20 mila, finanche 30 mila spettatori. L’ambiente è incredibile e viverlo in prima persona, sì, è bello. Per non parlare dell’entusiasmo per il calcio dei principi sauditi. In questo senso il primo anno nella nuova realtà mi ha insegnato molto. E in particolare fatto capire a cosa aggrapparmi quando non tutto gira per il verso giusto. Quando si è trattato di firmare mi sono detto: “Perché no?”. In fondo, accettando e facendo bene, non mi sarei precluso altre strade».

Abbiamo parlato del Leeds. E cioè del club che le ha permesso di consacrarsi a livello internazionale. Che effetto le ha fatto apprendere del licenziamento di Marcelo Bielsa, suo grande mentore?Su Instagram ha voluto rendergli omaggio.
«È stato un colpo al cuore, davvero. Non abbiamo mai smesso di sentirci. E a seguito del suo allontanamento non ho mancato di scrivergli un messaggio. Se c’era un allenatore in grado di risollevare la squadra era comunque e sempre lui. Purtroppo ha pagato caro gli infortuni di diversi giocatori. E con Marcelo, un tecnico che punta tutto su 23 giocatori e solamente su di loro, è rischio da mettere in conto. Abbiamo lavorato insieme per tre anni e di certo non avrebbe voluto che lasciassi l’Inghilterra. A ogni allenamento ho appreso qualcosa. Tecnica, tattica, ma non solo. Sotto il controllo maniacale di Bielsa ho forgiato pure il fisico, un allenamento dopo l’altro, comunicando giornalmente tutti i pasti consumati».

Grazie agli insegnamenti del «Loco» ha potuto trascinare al successo anche la Macedonia del Nord. Con tanto di gol al primo Europeo della sua storia. Giovedì vi attende un’altra sfida pazzesca: i playoff mondiali contro l’Italia. Quanto siete carichi?  
«Tanto. Eccome se siamo carichi. Personalmente penso a questa partita da mesi. Negli ultimi cinque anni la Macedonia ha fatto passi da gigante. E la partecipazione a Euro 2020 ha premiato la rinnovata strategia della federazione, infine aperta ai giovani e ai profili che militano al di fuori del campionato nazionale. Non scordiamoci che parliamo di un Paese che ha poco più di 2 milioni di abitanti. Fare un Europeo, dunque, ha costituito un’impresa inimmaginabile. Solo noi ci credevamo, consapevoli della qualità della squadra. E l’accesso ai playoff mondiali ne è la conferma. Non era per nulla scontato. Per noi - trattandosi di un’altra prima storica - esserci è già un successo. Ma non per questo scenderemo in campo già battuti».

Gli Azzurri devono vincere a tutti i costi. Noi, invece, proveremo a far accadere qualcosa di speciale

Il ruolo di outsider, tuttavia, potrebbe in qualche modo aiutarvi. Vero?
«Di certo gli Azzurri sono i grandi favoriti. Sì, la pressione è tutta sugli uomini di Roberto Mancini. Giocano in casa e devono assolutamente vincere. Dovranno gestire dosi industriali di nervosismo. D’altronde mancare anche Qatar 2022, dopo aver saltato gli ultimi Mondiali, sarebbe un fallimento clamoroso. A noi, alla Macedonia, serve invece un miracolo. Ma nel calcio le sorprese inaspettate ogni tanto succedono. E con i miei compagni faremo di tutto per far sì che avvenga qualcosa di speciale».

Per la popolazione macedone siete già degli eroi. S’immagina cosa potrebbe succedere qualora riusciste a sgambettare l’Italia e magari il Portogallo?
«Beh, se veramente dovesse concretizzarsi un simile scenario, per l’ennesima volta il calcio confermerebbe la sua indecifrabilità. Tutto è possibile, ripeto. E la mia storia, a ben guardare, ne è la prova. Basta osservare da dove sono partito, dallo Young Boys che mi ha scaricato, passando dalla Challenge League e dal Lugano. L’importante è non smettere di crederci».

A proposito della sua storia. Lei è giunto in Svizzera all’inizio degli anni Novanta, a un anno, complice - immaginiamo - il conflitto nei Balcani. Cosa prova in questi giorni, di fronte a un’altra, sanguinosa guerra tra popoli?
«In effetti i miei genitori raggiunsero la Svizzera anche a causa della violenta guerra nell’ex Jugoslavia. Diverse altre famiglie macedoni, per contro, si rifugiarono in Turchia. Assistere di nuovo a qualcosa del genere, in Europa, nel 2022, fa male. E il dolore più grande è senz’altro legato all’enorme trauma che stanno vivendo tanti, troppi bambini. Dimenticare le bombe, per loro, sarà molto difficile. Non è giusto vedersi costretti a fuggire dalla propria casa, in Ucraina, insieme a decine di migliaia di civili che pagano le visioni politiche di poche persone».