Calcio

«Eriksen di nuovo in campo? Non impossibile, ma poco ragionevole»

Il centrocampista danese dovrà farsi impiantare un defibrillatore cardiaco sottocutaneo - L’opinione dello specialista Andrea Menafoglio: «C’è chi è tornato a giocare, ma gli inconvenienti non mancano»
Fernando Lavezzo
17.06.2021 20:34

A Christian Eriksen verrà impiantato un defibrillatore cardiaco sottocutaneo. Dopo l’attacco cardiaco di cui è stato vittima sabato, nel match contro la Finlandia, il centrocampista danese è stato sottoposto a diversi esami che hanno portato a questa decisione. Il giocatore ha accettato la soluzione. Ma cos’è un defibrillatore cardiaco sottocutaneo? Come ci si convive? Christian Eriksen potrà tornare a giocare ad alti livelli? Abbiamo rivolto queste ed altre domande ad uno specialista, Andrea Menafoglio, cardiologo all’Ente Ospedaliero Cantonale.

Un intervento di routine
«Nel caso di Eriksen, non sono stati divulgati dettagli e non conosciamo la diagnosi cardiologica precisa», premette Menafoglio. «Quel che sappiamo, è che ha avuto un arresto cardiaco. In questi casi, abitualmente, il cuore va velocissimo e si verifica la cosiddetta fibrillazione ventricolare. Praticamente, il cuore non ha più funzione e si ferma. I medici danesi hanno sicuramente svolto tutta una serie di esami volti a scoprire la causa. Tuttavia resta la possibilità che l’arresto cardiaco si verifichi nuovamente. Da qui la necessità del defibrillatore permanente, uno strumento che viene impiantato nell’organismo e che controlla continuamente il battito cardiaco. Qualora il cuore andasse in arresto, sviluppando un’aritmia ventricolare, l’apparecchio se ne accorgerebbe e invierebbe una scossa per ristabilire il ritmo normale del cuore e salvare il paziente. Al giorno d’oggi, impiantare un defibrillatore è un intervento di routine che si effettua anche in Ticino. Si può fare in ambulatorio o con un breve ricovero. Come in ogni intervento, ci sono dei piccoli rischi di complicazioni».

Il cavo è il punto debole
Cosa significa per una persona normale – e non solo per uno sportivo d’élite – vivere con un defibrillatore interno? «Innanzitutto – spiega Menafoglio – ne esistono di due tipi. Quello che verrà impiantato a Eriksen, da quanto si è appreso, è sottocutaneo. Misura circa 8 centimetri di lunghezza, pesa circa 130 grammi e si situa sotto la pelle, nel fianco sinistro del torace, associato a un cavo elettrico che va lungo lo sterno. L’altro è il defibrillatore intravenoso, più piccolo: il cavo entra nella vena fino al cuore. Al di là del fastidio, entrambi possono comportare degli inconvenienti, in particolare legati al cavo. È il punto debole, perché può rovinarsi. E se si rovina, non funziona più bene. Bisogna sostituirlo, altrimenti può agire in modo inadeguato e provocare uno shock non giustificato o non intervenire correttamente quando è necessario. Ogni anno bisogna contare fino a circa il 5% di inconvenienti legati ai cavi. Sussistono poi dei problemi se si entra in contatto con grossi campi elettromagnetici. Nella vita quotidiana le interazioni tra il defibrillatore e il mondo esterno sono molto rare, ma sarebbe ad esempio difficile lavorare in una centrale elettrica».

Gli sport di contatto, dove si verificano dei traumi toracici, aumentano il rischio di rotture o di lesioni dei cavi elettrici del defibrillatore

Colpi al torace
Veniamo ad Eriksen e agli sportivi professionisti. «Capisco che ci si interroghi sul prosieguo della sua carriera», afferma Menafoglio. «Molto, però, dipende dal tipo di malattia cardiaca. Non conoscendo la diagnosi, è difficile esprimersi. Ci sono esempi di sportivi, anche d’élite, che portano un defibrillatore. Come l’olandese Daley Blind, presente agli Europei. Lui ha sviluppato una miocardite, un’infiammazione del cuore. C’è anche una saltatrice con l’asta tedesca, Katharina Bauer. In generale, però, ci sono malattie del cuore per cui certi sport sono controindicati. Inoltre gli sport di contatto, dove si verificano dei traumi toracici, aumentano il rischio di rotture o di lesioni dei cavi elettrici del defibrillatore. Si può immaginare di mettere delle protezioni, ma sono situazioni al limite. L’attività fisica intensa aumenta poi il rischio di sviluppare un’aritmia che fa intervenire il defibrillatore. Può trattarsi di una vera aritmia maligna (per la quale il defibrillatore è predisposto e svolge il suo vero compito di salvavita), ma anche di una aritmia benigna o addirittura del fatto che allo sforzo intenso il polso sale magari fino a 200 battiti. Ecco: a volte il defibrillatore interpreta quel 200 come un’aritmia vera ed interviene di conseguenza. Gli shock elettrici sono sgradevoli e un atleta deve essere a conoscenza dell’eventualità. Altro inconveniente: l’intervento del defibrillatore può far perdere coscienza, provocando una caduta. Magari nel calcio non è così problematico, ma immaginate cosa può significare svenire nel ciclismo, senza scomodare il paracadutismo, l’alpinismo o i motori».

Una decisione condivisa
Nel caso di Eriksen, è difficile esprimersi su un ritorno alle competizioni. «Personalmente lo vedo poco ragionevole, ma a volte è fattibile, ci sono dei casi che lo dimostrano», conclude Menafoglio. «Secondo le raccomandazioni internazionali, la scelta di continuare o meno lo sport agonistico con un defibrillatore va condivisa con l’atleta, soppesando i rischi, i benefici e i suoi desideri. Alcuni studi, effettuati su atleti con defibrillatore, non hanno evidenziato dei rischi più elevati di decesso. La decisione è individualizzata e bisogna tener conto di un certo numero di effetti negativi o potenzialmente tali. Anche ammettendo che Eriksen abbia una malattia cardiaca che gli permetta di continuare, gli inconvenienti non mancano: 1) il contatto fisico, con rischio aumentato di lesioni e disfunzioni dell’apparecchio; 2) il rischio aumentato di aritmie o di interventi inadeguati del defibrillatore. Poi c’è la componente psicologica, spesso determinante».

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