Calcio

Hakan Yakin: «A dieci anni dal mio ritiro il calcio è ancora la mia vita»

Nel 2013 il fallimento del Bellinzona costrinse l’ex trequartista basilese ad appendere gli scarpini al chiodo - Stasera (19.30), alla wefox Arena, il suo Sciaffusa ospiterà proprio i granata
L’ex nazionale rossocrociato, 46 anni, sta vivendo la sua prima avventura in qualità di allenatore principale. © Keystone/Urs Flueeler
Nicola Martinetti
05.05.2023 06:00

Hakan, fra una manciata di settimane saranno trascorsi dieci anni dal suo ritiro come calciatore. Che effetto le fa?
«È una bella domanda (ride, ndr). Direi che tutto sommato è una ricorrenza che vivo bene. In parte perché sono ancora attivo nel mondo del calcio, dove posso mettere a disposizione di chi lo necessita l’esperienza accumulata da giocatore. E in parte perché un decennio fa, raggiunta una certa età, avevo capito che la mia carriera era ormai al tramonto. Ho dovuto dire basta, ma con soddisfazione e serenità. Tranne forse per le circostanze del ritiro, con l’addio forzato in seguito al fallimento del Bellinzona, che non furono esattamente idilliache».

A volte dopo il ritiro un calciatore tende a rimanere tale nella sua mente anche per decenni. Lei è riuscito a prendere le distanze dalla sua carriera?
«Credo che ogni calciatore che smette, deve fare un grande sforzo per compiere il passo successivo. E in ogni caso, difficilmente riesce davvero a staccarsi dal calcio. Il corpo, la mente e il cuore sono troppo legati a questa disciplina, a questo mondo. Io non faccio eccezione. Il calcio è la mia vita, e sono grato che continui ad esserlo tutt’oggi. Poi, per quanto concerne il sentirsi ancora un calciatore, direi che in parte è innegabile (sorride, ndr). Ogni tanto a bordocampo assisto a situazioni che in partita avrei gestito diversamente, e devo reprimere la voglia di riallacciarmi gli scarpini. Allenare, in questo senso, è un aiuto. È appagante e mi rende felice»

Da giocatore una delle mie più grandi qualità era saper leggere il gioco, ma non ero un visionario. Anzi: la mia carriera all'estero non è andata secondo i piani. Però non ho rimpianti: mi sono goduto appieno il bello e il brutto di ogni avventura

Ripensando alla sua carriera, non si è mai sentito una sorta di precursore? Ha militato nel Paris Saint-Germain prima che diventasse la superpotenza che è oggi, per dire. E ha pure giocato in Qatar, dove pochi mesi fa si è tenuto addirittura un Mondiale...
«È vero che, da giocatore, una delle mie più grandi qualità era saper leggere il gioco, prevedendo in anticipo la mossa successiva. Tuttavia le circostanze da lei menzionate sono state perlopiù casuali. Imprevedibili, anche, come molte altre cose nella vita. Non merito insomma tutto questo credito, non ero un visionario (altra risata, ndr). Anzi, se ripenso alla mia carriera all’estero, posso affermare che in fondo non è stata ottimale, non è andata secondo i piani. Però non ho rimpianti: mi sono goduto appieno il bello e il brutto di ogni avventura. Non parlerò mai male dei miei 18 anni da professionista, perché me li sono gustati. E ora cerco di fare lo stesso in qualità di tecnico».

Gli ultimi scampoli di quei 18 anni li ha trascorsi a Bellinzona. Si sarebbe mai immaginato di consumare lì la tappa finale?
«Se ripenso a quell’esperienza, prevalgono sentimenti agrodolci. In primis l’amarezza, perché con l’allora presidente Gabriele Giulini condividevo una visione. Volevamo portare in alto il nome del Bellinzona, così come quello del calcio ticinese in generale. E anche dal punto di vista personale, ero convinto di poter costruire qualcosa di bello e duraturo. Purtroppo però le cose sono andate a finire molto male, addirittura con un fallimento. Che, come accennavo in precedenza, ha di fatto posto fine anche alla mia carriera. Ciononostante serbo anche ricordi molto gradevoli di quel periodo. È stata una parentesi molto speciale, durante la quale ho stretto legami che rimangono saldi ancora oggi».

Pochi giorni fa il mancato ottenimento in prima istanza della licenza per la prossima stagione, ha rievocato fantasmi risalenti al 2013. Lei, come detto, all’epoca c’era. Osservando la situazione da fuori, è preoccupato per i granata?
«Il calcio ticinese mi sta molto a cuore nel suo insieme. Penso all’ACB, ma anche al Lugano, al Chiasso e al Locarno. Sono club con una grande tradizione, che meritano una degna collocazione all’interno del panorama elvetico. Di più: il calcio svizzero, a mio avviso, ha e avrà sempre bisogno del Ticino e dei suoi calciatori. Per questo dieci anni fa mi ero convinto ad abbracciare il progetto granata, perché volevo contribuire a dare stabilità a tutti i livelli - anche grazie all’auspicato nuovo stadio - a una società molto importante. Resto ancora convinto che si possa costruire qualcosa di bello nella capitale ticinese, facendo parlare dell’ACB in tutto il Paese. Spero davvero che la vicenda attuale si risolva per il meglio, con l’ottenimento della licenza. Sarebbe molto triste vedere il Bellinzona retrocedere d’ufficio. Anche perché, a mio avviso, il Ticino merita almeno due squadre nell’élite nazionale».

Il mio primo anno da coach? Sin qui un'esperienza positiva. La mia filosofia è sfruttare ogni giorno per crescere, un processo che vale per me e ma anche per la squadra

Stasera tuttavia le toccherà provare a dare un dispiacere ai granata, con il suo Sciaffusa. Come sta andando il primo anno da allenatore principale?
«Direi che fin qui è stata un’esperienza positiva. Già l’anno scorso, per un breve periodo, avevo potuto assaggiare ciò che ho poi riscoperto in questi mesi. La mia filosofia è sfruttare ogni giorno per crescere, un processo che vale per me e ma anche per la squadra. Per quanto concerne il campionato invece, credo che ormai non abbia più molto da dire né a noi né al Bellinzona. Ritengo infatti che entrambe le squadre possano già considerarsi salve. Gli incontri che ci restano, compreso quello di stasera, dovranno allora fungere da banco di prova per i giocatori. Per dare spettacolo, ma anche per dimostrare di meritare un posto in squadra il prossimo anno».

Parallelamente alla sua attività come tecnico, sta pure conseguendo in Turchia il patentino per allenare in Swiss Football League. Un esercizio complesso, lo abbiamo visto con Mattia Croci-Torti...
«In realtà però non vivo questa formazione come uno stress. Trovo infatti molto interessante e stimolante imparare cose nuove. E poi in Turchia ho potuto stringere ulteriori legami, scambiando opinioni con diversi ottimi allenatori. Penso ad esempio ad Emre Belözoğlu, attuale tecnico dell’Istanbul Basaksehir. Poi certo, mi è spiaciuto non essere riuscito ad ultimare il mio percorso formativo in Svizzera. Purtroppo le circostanze mi hanno portato altrove, ma va bene così».

Le circostanze hanno inoltre diviso la sua strada e quella di suo fratello Murat. Prima in panchina eravate quasi un tutt’uno, ora come funziona? È lei a chiedere consigli a lui, oppure viceversa?
«Per anni, quando abbiamo lavorato insieme, Murat si è occupato del lavoro difensivo e io di quello offensivo. Ancora oggi, dunque, quando guardo le partite della Nazionale e noto qualcosa che non mi convince là davanti, lo chiamo e glielo dico (ride, ndr). Scherzi a parte, in realtà mio fratello riesce a dare il meglio di sé in panchina quando non è sollecitato da più parti, quindi lo lascio molto tranquillo al riguardo. Anche perché sta facendo molto bene, e sono fiero di lui. Quando ci sentiamo o ci vediamo, tendiamo a parlare di temi che esulano dal calcio. Nonostante abbiamo smesso di lavorare in coppia, rimaniamo molto vicini l’uno all’altro. Siamo uniti da un bel rapporto».

Più di una volta, come suggeriva, ha seguito Murat nelle sue avventure in qualità di assistente. Come mai in Nazionale no?
«In realtà non è mai stato un tema. Conosco bene l’ambiente della selezione elvetica, da giocatore ho totalizzato 87 presenze, ma credo fosse giunto il momento di intraprendere percorsi diversi. Io volevo percorrere la mia strada, e Murat ha dal canto suo colto un’ottima opportunità. Entrambi siamo molto felici delle scelte fatte».