Euro 2024

I nostri contrasti in una sfida di calcio

Al di là della sua portata sportiva, perché il derby tra Svizzera e Italia genera in noi questa ansia? – Lo hanno forse capito poeti come Giovanni Raboni e Vittorio Sereni
Granit Xhaka si dispera, alle sue spalle Remo Freuler applaude. ©EPA/FRIEDEMANN VOGEL
Massimo Solari
28.06.2024 06:00

Vorremo sdrammatizzare. Sostenere che, sì, vada come vada, vinca pure il migliore. E invece Svizzera-Italia ci turba. Assorbe le nostre energie. Un tormento sportivo. Forse non solo sportivo. Nell’ottavo di finale di Euro 2024, in programma domani a Berlino, rischiamo insomma di annegare. Attratti e sedotti da un magnete potentissimo. Non possiamo farne a meno. E in Ticino, come già sottolineato, questo coinvolgimento, questa sorta di sovrapposizione con la partita, è senza dubbio maggiore rispetto a chi - comunque - soffrirà di là dal confine. Già, ma perché? A che cosa dobbiamo una simile apprensione? Due poeti molti vicini al nostro cantone, forse, sono stati in grado di afferrare il senso più profondo che si cela dietro a un incontro di pallone: loro sono Giovanni Raboni e Vittorio Sereni.

La metafora perfetta

Entrambi interisti, ossessione condivisa a San Siro a partire dagli anni Sessanta, il milanese e il nativo di Luino hanno riconosciuto nel calcio una sincera chiave di lettura della vita. In versi e in prosa. E proprio gli scritti che Raboni ha dedicato all’amata disciplina, tra il 1979 e il 2004, sono stati raccolti in un volume appena dato alle stampe. Il suo titolo è illuminante: Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita (Mimemis Edizioni). A curare e introdurre l’opera è Rodolfo Zucco, italianista e specialista di linguaggio poetico all’Università di Udine. «Raboni sarebbe stato contentissimo di osservare i risvolti di Svizzera-Italia. Amava il clima di tragedia e le catastrofi» spiega il professore associato da noi raggiunto, anticipando l’amaro destino di una o dell’altra squadra.

Zucco fornisce una prima interpretazione del messaggio veicolato da Raboni: «Ci appassioniamo alla partita di calcio in quanto metafora perfetta della vita dell’uomo. La passione per questo sport non è altro che il trasferimento, su 90 minuti, di una somma di emozioni che si dispiegano su una vita intera. O, al contrario, che non lo fanno. In un singolo incontro può anche non succedere nulla. Oppure qualche cosa può accadere, ma si tratta di uno, due, tre episodi. Come quelli che in definitiva sono capaci di cambiarti l’esistenza». Ma c’è anche dell’altro. «Ed è l’imprevedibilità» indica Zucco: «Persino un campione può svirgolare la palla più semplice e consegnare la vittoria all’avversario. Siamo nelle mani del caso, dunque. E questo è entusiasmante, perché vediamo in novanta minuti un piccolo film di quella che è o potrebbe essere la nostra vita. Compresa l’eventualità di esultare all’ultimo minuto». Come l’Italia contro la Croazia. O come riuscito alla Germania con i rossocrociati. Per 97 e 90 minuti, in effetti, Svizzera-Italia non ha avuto ragione di esistere. «Ma è proprio questo il nocciolo della questione»prosegue Zucco: «Il senso che ha una vita umana si vede soltanto alla fine. Quando tutti gli avvenimenti prendono una certa luce e assumono un determinato significato». E sarà così pure domani sera, attorno alle 20. Forse dopo.

«E alla fine si tifa se stessi»

La riflessione di Raboni va oltre: «Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita, di se stessi, di quello che si è stati, di quello che si spera di continuare a essere. È un segno, un segno che ognuno riceve una volta per sempre, una sorta di investitura che ti accompagna per tutta la vita, un simbolo forte che si radica dentro di te, insieme con la tua innocenza, tra fantasia, sogno e gioco». Perciò in Svizzera-Italia ciascuno di noi avverte qualcosa di personale. Perciò, ribadiamo, per alcuni (azzurri compresi) è un derby e per altri no. La rivalità, l’invidia, la reciproca diffidenza possono presentare sfumature e gradi d’intensità differenti. La vera sfida, se vogliamo, è non rifiutarli. «A un certo punto - sottolinea in merito il professor Zucco - uno si riconosce nella propria vita. La assume, la accetta. Con tutte le sue disgrazie, sfortune e fortune. Aderire alla propria vita diventa necessario. Ecco perché si finisce per tifare se stessi. È una sorta di punto di maturità». Come lo è accogliere la superiorità di una scuola calcistica rispetto a un’altra, ma altresì ammettere di provare dei sentimenti viscerali di fronte a una certa partita, a un preciso avversario.

«Non è una vergogna»

Sosteneva Sereni, che ha trasformato il confine in fonte d’ispirazione. «So di essere in buona fede rispondendo che queste sono malattie che si prendono da ragazzi: magari passano, e se non passano com’è nel mio caso, non c’è che da prenderne atto, davvero non è un problema e non è nemmeno una vergogna». Quindi sì, soffrire per l’imminente gara da dentro o fuori è lecito. Con tanti cari saluti all’obiettività che - considerato il momento - ci permetterebbe di assegnare i panni del favorito alla Svizzera piuttosto che all’Italia. O viceversa. Sereni, menzionando la sua immedesimazione con l’Inter, lo reputava «uno sdoppiamento tra considerazioni obiettive sulle vicende (...) della squadra del cuore in particolare (...) e il fantasma nerazzurro». Il tifoso, riassume Rodolfo Zucco, «non può non essere fazioso». E ciò, paradossalmente, poiché significherebbe raccontare una bugia a se stessi. La radice del tifo, sempre stando a Sereni, è non a caso reperibile «nel punto in cui avverti il nesso tra il tuo carattere e la sembianza, cifra che la squadra assume ai tuoi occhi, per analogia ma anche per contrasto o semplicemente per complementarità rispetto all’immagine che hai di te stesso. Diventa una metafora della tua esistenza, la sorte della squadra». E manca sempre meno per scoprire di quale sorte si tratta.

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