L'analisi

Il Pelé «commerciale»: quanto era forte il suo marchio?

Secondo gli esperti O Rei avrebbe potuto guadagnare di più, soprattutto trasferendo il suo mito alle giovani generazioni – Ma l'avventura ai New York Cosmos aprì a una nuove epoca e stabilì nuovi standard per gli stipendi
© AP
Marcello Pelizzari
30.12.2022 11:00

Nel 1980, Edson Arantes do Nascimento – per tutti solo e soltanto Pelé – era uno splendido quarantenne. Si era ritirato tre anni prima, dopo aver partecipato a quattro Mondiali e, soprattutto, averne vinti tre. Lasciò il calcio forte di un altro record, quello dei gol segnati con la maglia del Brasile: 77 in 92 partite. Soltanto Neymar, molto tempo dopo, lo avrebbe raggiunto. Con un numero maggiore di partite (124).

Nel 1980, dicevamo, Pelé fu eletto Atleta del Secolo in una votazione promossa dal quotidiano sportivo francese l’Equipe. Logico, anche perché Diego Armando Maradona doveva ancora conquistare la ribalta internazionale e, ancora, perché Pelé, grazie alla sua parentesi molto glamour negli Stati Uniti, con i mitici e chiacchierati New York Cosmos, di fatto fu la prima, vera star del calcio a sfruttare, oltre al talento cristallino, l’immagine che aveva generato. Un divo, voilà.

I primi contratti

La fama, quella vera, procurò a Pelé numerosi contratti pubblicitari. Ne citiamo alcuni: le scarpe da ginnastica Olympikus, l’azienda di videogiochi Atari, i cellulari Nokia. Tutti, più o meno, volevano il suo volto. La sua presenza. Il suo carisma. Anche i politici, ma quello è un altro discorso. In un’epoca, certo, caratterizzata da stipendi molto più bassi, in proporzione, rispetto alle cifre che girano oggi, guadagnare con attività extra-calcistiche durante e dopo la carriera era importante. Eppure, secondo le stime il patrimonio netto del Re è valutato in 100 milioni di dollari. Pochi rispetto ai patrimoni di altri pesi massimi come Michael Jordan (2,2 miliardi), Lionel Messi (600 milioni), Cristiano Ronaldo (500) e l’erede di Pelé, Neymar (200). Possibile? Evidentemente sì.

Pelé ospite di Germania 2006.
Pelé ospite di Germania 2006.

La gestione del marchio

Secondo gli esperti, il peccato originale è la mancata gestione del marchio Pelé. Jordan e il suo entourage, ad esempio, furono eccezionali nell’intercettare il fenomeno streetwear e a posizionarsi sul mercato con le iconiche Air Jordan. Quando Netflix, nel 2021, ha lanciato il documentario Pelé diretto da Ben Nicholas e David Tryhorn, l’omonimo hashtag sui social è esploso. Ma non c’erano prodotti da abbinare, niente da appioppare a tifosi, curiosi e interessati insomma. Nessuna linea di scarpe, venendo al nocciolo, targata Adidas o Puma.

L’altro peccato originale, strettamente collegato a quanto appena detto, è l’incapacità – a proposito di gestione del marchio – di attirare la generazione Z, ovvero i nati fra il 1995 e il 2010. Una generazione cresciuta dentro i social e devota ad altri giocatori totemici: i citati Ronaldo, Messi e Neymar, con i rispettivi sponsor. E invece no, il marchio non è stato «ringiovanito». E così, oggi, il profilo Instagram del Re ha solo 10,6 milioni di follower mentre Neymar viaggia a quota 188 milioni. Messi? 383 milioni. Ronaldo? Addirittura, 507 milioni.

Oltre gli steccati

Di meriti, comunque, Pelé ne ha avuti anche in campo pubblicitario. E questo perché, nel calcio come nella vita, seppe andare oltre gli steccati e le classi sociali. Unendo un Paese intero attraverso la gioia del pallone. E diventando, all’estero, un ambasciatore del Brasile.

Di più, a detta di molti esperti Pelé era e rappresentava un’immagine sicura per gli inserzionisti desiderosi di associare il proprio prodotto al Re. Un’immagine priva dell’esibizionismo di molti atleti di oggi, lontana dagli scandali. E questo nonostante suo figlio, Edinho, sia stato arrestato per traffico di droga e nonostante a suo tempo si rifiutò di incontrare sua figlia, Sandra Regina.

Pelé ai Cosmos con Muhammad Alì.
Pelé ai Cosmos con Muhammad Alì.

L'avventura americana

A proposito di stipendi, se è vero che all’epoca giravano molti meno soldi è altrettanto vero che Pelé, firmando per i New York Cosmos, a metà anni Settanta, oltre a posizionare gli Stati Uniti nella grande mappa del calcio alzò l’asticella garantendosi un ingaggio milionario. E questo perché di milioni, lasciato il Santos e, in un primo momento, il calcio, non ne aveva (più). «Saltò fuori – disse Pelé – che non avevo soldi, ma ne dovevo a molte persone».

Il numero 10, il Re, firmò per un sacco di cose, aprendo la strada agli altri. I Cosmos, infatti, appartenevano alla Warner Communications. Colosso che fece uscire Pelé dal rettangolo verde, sfruttandone il nome per la pubblicità e per le pubbliche relazioni. L’esatto ammontare dell’affare non fu mai rivelato. O meglio, lo stesso Pelé nella sua biografia afferma di aver ricevuto un milione di dollari all’anno per sette anni. Altre fonti parlano di 2,8 milioni di dollari per un triennale. Un rapporto del New York Times, infine, attesta che in totale Pelé si mise in tasca 7 milioni di dollari sull’arco di tre anni. Nota bene: 2 milioni servirono per pagare le tasse in Brasile.

Sia quel che sia, quelle cifre cambiarono per sempre il modo in cui il mercato vedeva gli atleti. E dava loro valore.

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