L'ombra dei soprusi dietro al mondiale

Gli occhi di Amnesty International, già da tempo ormai, sono puntati sul Qatar e i suoi Mondiali 2022. La situazione dei diritti umani nel Paese era già molto problematica nel 2010, quando gli fu concesso di ospitare la Coppa del mondo, ma allora la FIFA non aveva linee guide in materia e quindi non aveva chiesto misure in questo senso. Per discutere del delicato tema si sono riuniti lunedì a Zurigo Amnesty e la FIFA, rappresentata dal direttore dell’ufficio della responsabilità sociale e dell’educazione Joyce Cook e da alcuni membri del Comitato organizzativo. Presente anche un componente dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Durante l’incontro Amnesty ha voluto chiarire quali sono i passi che la FIFA sta compiendo in direzione dei diritti umani dei lavoratori. Ci facciamo spiegare meglio il quadro della situazione dalla responsabile sport e diritti umani di Amnesty, Lisa Salza. «Il Mondiale in Qatar è stato alla base di una discussione più ampia, incentrata soprattutto sulle riforme in favore dei lavoratori e sull’introduzione di condizioni di lavoro minime per gli impiegati locali. Le nostre ricerche dimostrano però che c’è ancora tanto su cui lavorare. Sarà nostra premura fare delle analisi poi pubblicarle, soprattutto in merito alle condizioni di lavoro degli addetti alla sicurezza, che potrebbero equivalere a lavoro forzato».
Il sistema kafala
Un elemento che impensierisce particolarmente l’organizzazione internazionale è il cosiddetto sistema kafala. Si tratta dello strumento principale di regolazione del mondo del lavoro di molti paesi arabi, accusato però da molte associazioni internazionali di essere in realtà una forma di schiavismo moderno neanche troppo mascherato. «Nonostante noi non lo definiamo tale, va sicuramente detto che questo sistema ha aperto le porte agli abusi lavorativi. È stato introdotto nel 2009, un anno prima che venisse concesso al Qatar di ospitare i Mondiali nel 2022. Negli anni seguenti Amnesty ha documentato dei casi di abusi sul luogo di lavoro decisamente importanti, proprio in relazione al sistema kafala. Grazie alle pressioni delle organizzazioni per i diritti umani, dei sindacati, dei media e degli sponsor, posso dire che la FIFA e lo stesso Qatar hanno sentito il peso della responsabilità e si sono dovuti per forza attivare. Dal 2017 in poi la FIFA ha iniziato a prendere molto seriamente la questione dei diritti umani anche adottando una propria politica interna. Anche il Qatar nel 2020 ha introdotto una riforma per i lavoratori, che Amnesty appoggia: sostanzialmente sono aboliti molti dei punti fondamentali di questo sistema. Tuttavia abbiamo osservato che purtroppo queste riforme per ora non sono ancora state totalmente implementate. È un aspetto che abbiamo ribadito ancora durante la riunione di lunedì. Ci sono ancora molti lavoratori migranti che subiscono dei soprusi. Inoltre, manca anche un monitoraggio relativo alla realizzazione di queste misure».
Una storia già sentita
Purtroppo, ciò che Amnesty sta registrando in Qatar, non è un caso isolato. In passato ci sono già stati parecchi grandi eventi che non hanno rispettato i diritti umani. Nel 2016 a Rio, per esempio, molte persone erano state costrette ad abbandonare le loro case per lasciare spazio alla costruzione degli impianti olimpici. «In quanto associazione internazionale, non ci opponiamo a nessun evento sportivo, anzi, riteniamo che ogni Paese abbia il diritto di ospitare un’importante manifestazione. Al contempo sosteniamo apertamente che la presentazione di una candidatura per diventare la sede di questi avvenimenti non debba portare a violazioni di diritti umani e creare terreno fertile perché ciò accada. Nel caso di Rio abbiamo purtroppo documentato plurimi sfratti di molte persone e famiglie dai loro alloggi per permettere che i Giochi potessero avere luogo. Si tratta di una chiara violazione dei diritti umani ed è palesemente una conseguenza dell’evento sportivo. Se Rio non avesse ospitato le Olimpiadi estive, tutto ciò non sarebbe successo. I diretti interessati, in questo caso il Comitato olimpico, devono prendere posizione, assicurandosi che in determinati paesi l’organizzazione di grandi eventi sia accompagnata da misure volte a minimizzare il rischio di violazioni dei diritti umani».
Un barlume di speranza
Che incontri come quello di lunedì a Zurigo possano cambiare qualcosa di un presente e un futuro che al momento si presentano piuttosto deprimenti? «La speranza è il cuore del nostro lavoro. È per questo che organizziamo meeting come quello di due giorni fa. Vogliamo mostrare alle varie organizzazioni che i diritti umani spesso non vengono rispettati. Inoltre, vogliamo anche far loro capire che hanno delle responsabilità alle quali non possono sottrarsi. Tutti i nostri incontri sono finestre di opportunità, aperte su un possibile cambiamento futuro. Qualche passo avanti è stato già fatto: se oggi possiamo parlare di riforme lavorative è perché abbiamo messo in luce i problemi e qualcosa è cambiato. Sicuramente c’è spazio per migliorare ancora, perché gli abusi lavorativi sono tanti».
La speranza di Amnesty è anche riposta in coloro che si aggregano alla sua missione, sostenendo la causa. Tra di loro ci sono anche diversi sportivi che ultimamente si sono pubblicamente, e fermamente, espressi in favore della lotta contro la violazione dei diritti umani in ambito sportivo. Uno degli ultimi casi più eclatanti è stato quello del pattinatore di velocità Nils Van der Poel. Durante l’ultima edizione a cinque cerchi di Pechino, dove ha conquistato due medaglie d’oro, lo svedese si è espresso su twitter in merito alla gestione cinese delle Olimpiadi: «Penso sia estremamente irresponsabile concedere a un Paese che viola i diritti umani, come fa palesemente la Cina, la possibilità di ospitare i Giochi olimpici». Il doppio medagliato ha inoltre deciso di rifiutare una dei suoi ori per dedicarlo a una donna il cui padre, un editore di origine cinese, è stato rapito e condannato dal governo di Xi Jinping. «Purtroppo, tra gli svizzeri - commenta Lisa Salza - non abbiamo registrato casi di sportivi che si esprimono in favore dei diritti umani in maniera così esplicita. Ciò che abbiamo notato è che soprattutto dai paesi nordici arrivano delle opposizioni molto nette: Olanda, Finlandia, Norvegia... L’ex capitano della Nazionale finlandese Tim Sparv, per esempio, si è recentemente espresso sui Mondiali 2022, sollecitando l’aumento della pressione sul Qatar, al fine di spingerlo a risolvere i problemi legati agli abusi sul lavoro».