Ma davvero in tutti questi anni Parigi aveva solo un top club?

Londra è esagerata e viaggia a forza sette: Arsenal, Chelsea, Tottenham, Fulham, West Ham, Crystal Palace e Brentford. Madrid ne sfoggia quattro: Real, Atletico, Rayo Vallecano e Getafe. Roma è la casa di giallorossi e Lazio, mentre Berlino si è da poco lasciata alle spalle quattro stagioni di derby tra Union e Hertha. E poi, certo, come non citare Lisbona con l’eterno scontro tra Sporting e Benfica, la doppia anima di Bruxelles (Anderlecht e Union Saint-Gilloise) oppure - lasciando perdere le capitali - la Istanbul divisa in due continenti e ben cinque fazioni: Galatasaray, Besiktas, Fenerbahçe, Basaksehir e Kasimpasa. Okay, ma Parigi? La regione metropolitana più popolosa dell’Unione europea - fertile culla per decine e decine di talenti, campioni del mondo compresi - da oramai 34 anni a questa parte conta un solo club calcistico di vertice. E, per questo motivo, costituisce un’eccezione per certi versi clamorosa.
Moda, lusso e champagne
La situazione, come detto paradossale, potrebbe presto cambiare. La capitale francese sta vivendo ore agitate, galleggiando tra euforia e preoccupazione. Alcuni giorni fa, Bernard Arnault ha avviato delle negoziazioni esclusive per l’acquisto della maggioranza azionaria del Paris FC. Chi è Bernard Arnault? Semplifichiamo: l’uomo più ricco al mondo, con un patrimonio stimato in 233 miliardi di dollari. L’imprenditore 75.enne è alla testa di LVMH, multinazionale tentacolare, proprietaria di oltre settanta marchi tra i quali - giusto per fare qualche nome - Christian Dior, Louis Vuitton, Bulgari, TAG Heuer, Moët & Chandon e Sephora. Compagine capolista in Ligue 2, il Paris FC non fa gola solo alla famiglia Arnault e alla sua holding Agache. Al tavolo delle trattative, pronta a mettere le mani sul 15% delle quote societarie, c’è pure la Red Bull. Insomma, per quanto i diretti interessati predichino calma e una pianificazione ponderata, la «Ville Lumière» e il calcio in Francia si apprestano a vivere una svolta epocale. «Perché il club cambierà dimensione e potrà ambire a nuovi successi» hanno in ogni caso ammesso in una nota i vertici del Paris FC, oggi presieduto da Pierre Ferracci.
Guerra, sovvenzioni e fusioni
Dal 1990, dicevamo, il Paris Saint-Germain balla da solo. E pensare che nel 1932 - anno in cui fu disputato il primo campionato della massima divisione - le formazioni parigine erano addirittura quattro: il Club français, il CA Paris, il Racing Club de France e il Red Star (1897). E poi? Poi venne la Seconda guerra mondiale e, complici le conseguenti difficoltà finanziarie, molti club finirono nel vortice della nazionalizzazione. Sovvenzionati dallo Stato, sì, e proprio in un’ottica di razionalizzazione locale, vittime delle fusioni decise dai sindaci dell’epoca.
Mentre nei Paesi vicini emergeva prepotentemente la figura del mecenate - con gli Agnelli alla Juventus o Angelo Moratti all’Inter -, il calcio parigino viveva dunque una fase di decadenza. Fino al 1970, quando per ovviare all’assenza di una società competitiva nella capitale, la Federcalcio transalpina decise di amalgamare il Paris FC e lo Stade Saint-Germain. Nacque così il PSG, anche se la scintilla - leggiamo - non scoccò immediatamente. Anzi. A contribuire all’affermazione del club furono naturalmente i primi successi all’alba degli anni Ottanta, il boom televisivo e pure le ondate migratorie che portarono a Parigi appassionati di pallone italiani, portoghesi e africani.
Il tentativo fallito del Racing
Al netto degli sviluppi più recenti, a pagare - ai tempi - fu la perseveranza della società. Altri, all’opposto, fallirono. Su tutti l’uomo d’affari Jean-Luc Legardère, che tra il 1982 e il 1989 cercò di dare vita al secondo grande club della capitale. Vi riuscì per breve tempo, plasmando il Racing Paris 1 prima e il Matra Racing poi. Per riuscire nei propri intenti, Legardère mise sotto contratto giocatori del calibro di Enzo Francescoli, Pierre Littbarski o Luis Fernandez, strappando al Porto l’allenatore Artur Jorge. La storia finì male, con il disimpegno del principale finanziatore, la definitiva retrocessione al termine della stagione 1989-90 e - va da sé - una voragine finanziaria.
Una città di provinciali
Sfondare con il calcio a Parigi, ad ogni modo, non è solo una questione di soldi. Sin qui, perlomeno. «Parliamo di una realtà abitata da provinciali, il cui sentimento identitario è prevalentemente rivolto alla città d’origine» spiegava a Ouest-France lo storico dello sport Paul Dietschy. Insomma, i lavoratori immigrati all’ombra della Tour Eiffel tendono a restare fedeli ai vari Montpellier, Nantes o Lione. Non solo. Stando al ricercatore Loïc Ravanel, nella capitale francese continua a prevalere un fermento culturale estraneo ad altre metropoli. «E i concerti, i teatri, i musei, le esposizioni e i cinema alimentano una concorrenza sociologica, economica e politica». 7.000 spettatori di media allo Stade Charléty, il Paris FC è destinato a fare i conti anche con questi fattori. Lo strapotere degli imperi Arnault e Red-Bull, tuttavia, dovrebbe bastare. E Parigi valer bene due club.