Riecco Cabanas: «Ai miei allievi Cervantes, ai talenti il mio vissuto»
Era sparito dai radar del calcio svizzero. Lui, icona dell’ultimo Grasshopper vincente e protagonista con i colori rossocrociati. Dopo tanti anni sulla cresta dell’onda aveva preferito abbracciare altro: la discrezione, la famiglia, ma pure la storia e la letteratura spagnola, diventando persino insegnante. Stuzzicato dall’offerta dell’ASF, che lo ha appena nominato talent manager, Ricardo Cabanas è infine tornato.
Dunque, dov'era finito «Ricci»?
«A crescere i suoi figli, a godersi serenamente la famiglia e, non da ultimo, a studiare. Sì, in questi anni ho avvertito il bisogno di allontanarmi dal calcio. Di vivere una vita normale. Insomma, non mi andava più di essere schiavo del pallone, dei suoi ritmi, dei risultati, e ciò anche in altre vesti».
Ha dovuto e voluto diplomarsi al termine della sua carriera, chiusa prematuramente per un grave infortunio a 33 anni. Le ha dato fastidio non poterlo fare prima, da calciatore?
«In parte sì, perché credo che ne avrei beneficiato come persona e pure come sportivo. Purtroppo ai miei tempi mancavano completamente le possibilità di una formazione parallela. Allo stesso tempo sono felice di aver potuto affrontare gli studi con la maturità e l’impegno di una persona di quasi 40 anni che in carriera ha saputo ragionare per obiettivi. A 18 anni, con ogni probabilità, non sarei invece stato alimentato dalla stessa passione e dalla stessa esperienza».
Crede sarebbe stato un professionista migliore, con una maturità o un apprendistato in tasca?
«Come suggerivo, sono sempre stato un calciatore molto focalizzato sui traguardi da raggiungere. Eppure, un’apertura mentale maggiore e degli interessi al di fuori del rettangolo verde forse mi avrebbero permesso di relativizzare il tutto. Mi avrebbero fatto capire che il mondo non finiva al 90’ o con una sconfitta».
All’epoca aveva avvertito dei pregiudizi sul tema, da parte di dirigenti e magari pure compagni?
«In realtà, all’epoca, non c’era proprio il bisogno di parlarne. Perché, sul piano organizzativo, l’esigenza di avvicinare il professionismo a un percorso per esempio universitario non si poneva. Contava solo il calcio e di tempo per pensare ad altro, di fatto, non sembrava essercene, tanto eravamo inghiottiti da quel tunnel. Ripensandoci con il senno di poi, invece, mi sono reso conto che tutte le ore spese in albergo aspettando un match, o tra un allenamento e l’altro, avrebbero anche potuto essere occupate in modo più intelligente. Anche se, ripeto, le condizioni di base per poterlo fare mancavano completamente».
La sensibilità dei club di punta verso l’istruzione dei giovani giocatori è cambiata nel corso degli anni?
«Rodri, che ha appena vinto il Pallone d’oro e che può vantare una laurea in Management e business administration conseguita all’alba della sua carriera, ha dimostrato che una cosa non esclude l’altra. Seppur non in tutti i settori, sono stati fatti degli importanti passi avanti in materia. E penso ad esempio alle classi di liceo per sportivi d’élite o agli istituti commerciali che permettono di combinare attività agonistica e tirocinio. Banalmente, è possibile allenarsi all’estero per un Mondiale e al contempo seguire dei corsi online. Ecco, tutto questo ai miei tempi non esisteva».
L’ASF l’ha voluta fortemente nel ruolo di talent manager. Che cosa si aspetta la Federazione da lei e dalle sue esperienze?
«Dispongo di un notevole know-how a livello calcistico e questo, senza dubbio, ha costituito un buon punto di partenza agli occhi dell’ASF. Potrò mettere il mio vissuto da sportivo al servizio dei migliori giocatori del Paese. Allo stesso tempo, grazie alle recenti competenze sviluppate nel mondo dell’insegnamento, potrò offrire una prospettiva diversa. L’obiettivo, infatti, non è solo quello di produrre dei calciatori promettenti, che sanno muoversi bene in campo. No, è importante anche sviluppare delle persone e delle personalità, accompagnandole e facendo in modo che possano integrarsi al meglio nel sistema. E gli studi, in questo senso, possono rendere un calciatore più completo».
In un’intervista rilasciata in luglio al Tages-Anzeiger precisava di continuare a godersi il calcio da spettatore, ma di aver rotto con il suo business. Ma è possibile essere talent manager per una Federazione calcistica e non ragionare in termini di competitività e rendimento?
«Ho riflettuto molto sull’opportunità in seno all’ASF anche per questa ragione. Ma se ho accettato è perché sono convinto che si possa osservare e contribuire alla crescita dei calciatori senza rimanere in superficie. È ovvio: a partire da febbraio - quando entrerò in funzione - l’obiettivo finale sarà quello di fornire alle squadre nazionali i migliori giocatori, quelli più forti. E però, ripeto, anche i più completi. A interessarmi, quindi, sarà l’evoluzione a 360 gradi del singolo, non il valore del suo cartellino».
Il suo incarico sarà al 60%. Continuerà a riservare il restante 40% alle lezioni?
«Continuerò a insegnare in un liceo per adulti di Zurigo, la Kantonale Maturitätsschule für Erwachsene (KME). Il che mi rende molto felice. Dovrò invece mettere in stand-by i corsi destinati ai più giovani».
Al netto delle sue origini, come sono nati la sua passione per la storia, la linguistica e la letteratura spagnola e il desiderio di insegnarle?
«Mi è sempre piaciuto studiare, imparare cose nuove. Sono una persona curiosa. Per quanto riguarda l’interesse per la storia, ricordo che da ragazzo divoravo i fumetti di Asterix e Obelix, mi affascinavano i romani e l’antichità. La passione per le lingue, per contro, è figlia del contesto in cui sono cresciuto, fatto di tante culture. Oltre alla facilità nell’apprendere diversi idiomi, ad attirarmi negli anni è stato pure il loro funzionamento. E durante il percorso di laurea ho trovato che potesse essere interessante trasmettere queste competenze anche a terze persone».
C’è uno scrittore o un poeta in particolare che non può mancare dal suo piano di studi?
«Beh, da Miguel de Cervantes non si può prescindere. È inevitabilmente il primo della lista. Seppur in una versione adattata e semplificata, Don Quijote de la Mancha accompagna sempre i miei allievi di spagnolo».
A proposito di personaggi che hanno segnato la storia. Lei è stato una figura «cult» del Grasshopper, negli ultimi anni d’oro del club. Quanto le fa male vedere la sua vecchia squadra affrontare l’ennesima crisi sportiva nonostante la nuova proprietà statunitense?
«Vederli così in basso fa malissimo. Sì, continuo a soffrire per il GC, l’unico club svizzero del mio cuore. Detto ciò, non voglio perdere la speranza. Anche altre società storiche del Paese hanno vissuto dei periodi complicati, più o meno lunghi. Dallo Young Boys al Basilea, passando per lo Zurigo che nessuno andava a vedere trent’anni fa. Insomma, ritornare grandi è possibile. Nel caso del Grasshopper serve un nuovo stadio, ma è soprattutto necessario un progetto serio e a lungo termine».
E da osservatore esterno Ricardo Cabanas che idea si è fatto del Lugano?
«Il club bianconero mi è sempre stato simpatico. Adoravo la sua maglia e ammiravo Mauro Galvao e Willy Gorter. Il Lugano di oggi, a proposito di proprietà americane, è riuscito a non sacrificare l’elemento identitario, a mantenere un legame non artificiale con il territorio. E ciò grazie alla presenza in panchina di Mattia Croci-Torti, ticinese per eccellenza e - in un mondo sempre più globalizzato - collante perfetto con i tifosi».
Ho letto che buona parte dei suoi allievi, invece, non la riconoscono. Che cosa le suggerisce circa l’attuale rapporto degli adolescenti con il calcio?
«Per la mia vita privata è un bene... (ride, ndr). Comunque, una riflessione va fatta. Io da piccolo conoscevo Roger Berbig, Raimondo Ponto o ancora Claudio Sulser. E, riallacciandomi alla precedente risposta, questa ammirazione aveva a che fare con l’identità di un club, con la capacità di saperla coltivare e tramandare. Ma se a 16 anni, oggi, un giovane talento fa le valigie e si trasferisce in Germania o in Belgio per qualche soldo o promessa in più tutto diventa complicato. E in questo senso, grazie al mio nuovo ruolo di talent manager e alla collaborazione con i club, spero di poter cambiare alcune tendenze, perché no fungendo anche un po’ da scudo rispetto alle sirene di uno o dell’altro procuratore».