Sinisa Mihajlovic, una vita da guerriero

La leucemia, alla fine, ha vinto. Strappando Sinisa Mihajlovic dai suoi cari dopo tre, lunghi anni di lotta e sofferenze. Anni che Mihajlovic ha passato al lavoro, in panchina, perché il calcio ai suoi occhi era un modo per allontanare i cattivi pensieri. E quell'ombra, ineluttabile, che si stava allungando sempre più su di lui. Era stato lo stesso Mihajlovic, tre anni fa, nel 2019, a dare notizia della sua malattia. Una grave forma di leucemia che il serbo, però, voleva affrontare come ha affrontato ogni cosa nella vita. Di petto, senza paure, senza nascondersi soprattutto. «Io non gioco mai per non perdere, nel calcio come nella vita» disse allora. «Sconfiggerò il male e lo farò per mia moglie, per la mia famiglia, per chi mi vuole bene».
A 53 anni, dopo alti e bassi, dopo aver sperato di essere guarito e dopo diverse ricadute, Mihajlovic si è arreso. Ha dovuto arrendersi. Lasciando, inevitabilmente, un vuoto. Difensore e centrocampista prima, allenatore, è stato l'anima di tantissime squadre, dalla Stella Rossa all'Inter, e addirittura di due nazionali: la Jugoslavia e la Serbia-Montenegro.
Nato a Vukovar da mamma croata e papà serbo, Sinisa si mise in luce da giovanissimo, ad appena 22 anni, conquistando la Coppa dei Campioni con la citata Stella Rossa. Il suo piede sinistro, micidiale in particolare nei calci piazzati, gli permise di fuggire dagli orrori della guerra. In Italia dal 1992, portato dalla Roma, fu pupillo di Eriksson alla Sampdoria e ancora alla Lazio. E proprio in biancoceleste, negli ultimi anni del conflitto jugoslavo, emerse l'orgoglio serbo di Mihajlovic. Che non rinnegò l'amicizia con Zeliko Raznjatovic, ex capo ultrà della Stella Rossa, meglio noto come il comandante Arkan.
Come allenatore, invece, si guadagnò subito il soprannome di sergente. Perché i suoi metodi, beh, erano pesanti. Certo, la sua carriera in panchina – a vederla oggi – è stata caratterizzata dagli esoneri più che dalle vittorie. Ma ovunque sia stato, Mihajlovic ha ricevuto attestati di stima e affetto. Perché dedito al lavoro. A Bologna, durante il suo ultimo incarico, la voglia di stare vicino alla squadra nonostante l'effetto delle cure gli ha permesso di diventare un tutt'uno con la società e con la piazza. Quando non poteva esserci, quando doveva lottare all'ospedale, giocatori e tifosi facevano capolino e, sotto le finestre del nosocomio, gli facevano sentire tutta la loro vicinanza.
Anche la storia in rossoblù, purtroppo, si è chiusa con un esonero. Amaro. E ovviamente non accettato dal diretto interessato: «Stavolta il sapore che mi lascia il mio voltarmi indietro è più triste», aveva scritto rivolgendosi a «fratelli e concittadini, dopo tre anni e mezzo di calcio, di vita, di lacrime, di gioia e di dolori». Ora, a morte avvenuta, resta un vuoto immenso come dicevamo. Ma restano anche i ricordi. E il ricordo. Quello di un uomo che non ha mai mollato. Fino al triplice fischio.