Euro 2024

Svizzera, non è questione di palato fine

La nazionale è tornata a casa tra orgoglio e delusione, in futuro non dovrà più accontentarsi
Flavio Viglezio
09.07.2024 06:00

È tempo di semifinali all’Europeo e la ferita – che, troppo fresca, già faticava a rimarginarsi – inevitabilmente si riapre. Sì, perché tra le quattro elette del torneo avrebbe tranquillamente potuto esserci anche la Svizzera. Avrebbe anzi meritato di esserci, la nazionale elvetica. Ed invece si comincia con la sfida tra la Spagna – unica grande davvero convincente – e una Francia incapace di segnare per ora il benché minimo gol su azione. Domani toccherà poi agli inglesi – contro i Paesi Bassi – e alla loro voglia di riportare a casa il primo trofeo importante dal 1966. Per ora sir Bellingham e compagni hanno mandato a casa noi. Basta socchiudere gli occhi per rivedere la rete di Breel Embolo che ci aveva fatto sognare, il tiro beffardo di Bukayo Saka, il magico corner di Xherdan Shaqiri che si stampa sulla traversa, il rigore fallito da un monumentale Manuel Akanji. Inutile girarci attorno, l’eliminazione ai rigori da parte dell’Inghilterra brucia ancora tantissimo. Stiamo provando a consolarci con le emozioni che ha saputo regalarci la squadra di Murat Yakin, con l’orgoglio per aver guardato diritto negli occhi formazioni che appartengono al gotha del calcio europeo e mondiale, con la soddisfazione per aver ammirato un calcio coraggioso e propositivo. E poi, vuoi mettere, abbiamo battuto l’Italia in un incontro ad eliminazione diretta. Sì, il popolo svizzero può essere fiero della sua nazionale. Il dolore però non se ne vuole andare, così come quel senso di vuoto per essere rimasti con un pugno di mosche in mano dopo aver sognato un’impresa storica. Vorremmo poter fare un salto indietro nel tempo e rigiocarla, questa partita.

La Svizzera è insomma tornata a casa su un bus in cui ha caricato sentimenti contrastanti, tra lacrime di gioia e altre di delusione. Difficile distinguerle. A Zurigo la nazionale è però stata accolta in maniera trionfale: l’abbraccio con i tifosi è stato totale, sincero, finanche commovente. Una simbiosi perfetta. Però lo confessiamo: la festa, meno di 24 ore dopo l’eliminazione, ha assunto contorni un pochino surreali. Quasi esagerati, per dirla tutta. Giocatori, staff tecnico e dirigenti: tutti sorridenti sul palco, a fare la ola, a cantare con la folla accorsa a salutare i suoi eroi. Tutto bello, per carità. È stato però un po’ come dire: «Abbiamo dato il massimo e più di così non potevamo fare».

Forse, allora, il definitivo salto di qualità la Svizzera lo effettuerà solo se e quando non si accontenterà più. Quando la rabbia, dopo una sconfitta come quella con l’Inghilterra, sarà più forte della soddisfazione. Non è una questione di palato fine. Non serve a nulla ricordare che fino ai Mondiali americani del 1994 la piccola Svizzera i grandi tornei poteva guardarli solo in televisione. Ci toccava tenere al Brasile, ai tempi, per sentirci protagonisti di un mondo che non ci apparteneva. Ora siamo diventati grandi, siamo maturati e abbiamo vissuto esperienze importanti, ma purtroppo – o per fortuna, per taluni – siamo abituati ad accontentarci. Come se avessimo paura di disturbare, di sconvolgere gli equilibri esistenti. Con il massimo rispetto, la Georgia – alla sua prima partecipazione ad un grande torneo – può fare festa dopo una sconfitta. Non questa Svizzera: l’Europeo tedesco ci ha detto che potevamo crederci. Come lo avevano per esempio fatto la Danimarca nel 1992 in Svezia o la Grecia nel 2004 in Portogallo.

Da oggi si guarda comunque al futuro con una certezza in più: è di nuovo amore tra il popolo svizzero e la nazionale. Un affetto incondizionato, sbocciato indipendentemente dai risultati conseguiti: già all’esordio contro l’Ungheria, lo stadio di Colonia ribolliva di euforia rossocrociata. Non era per nulla scontato, dopo le critiche subite nella campagna di qualificazione alla manifestazione tedesca. Chi anni fa era guardato con sospetto e diffidenza perché non cantava l’inno nazionale o perché accusato di non esprimere fino in fondo un’identità elvetica oggi è definitivamente entrato nel cuore della gente. È la nazionale di capitan Xhaka, di Shaqiri, di Embolo, di Akanji, di Duah, di coach Murat Yakin. Nessuno si sogna più di chiamarli “secondos”. Anche se non siamo ancora arrivati primi. Fino ad ora.

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