Emiro all'incrocio

Un avvio in cellofan

La rubrica di colore del nostro inviato in Qatar Massimo Solari
Massimo Solari
21.11.2022 06:00

Tutto, o quasi, comincia sul sedile posteriore di un taxi. Qui, a Doha, quelli ufficiali sono turchesi. Uber è la valida alternativa. Aggrapparsi a loro, appena atterrati in un mondo sconosciuto, è quasi inevitabile. Una bussola, tanto fondamentale quanto figlia di un paradosso. Uno dei più evidenti da queste parti. A fornirci il primo assaggio del Qatar sono infatti un autista del Bangladesh, uno del Sudan e un altro ancora proveniente dal Kenya. Vivono lontani, lontanissimi dai luccichii della Corniche e dagli agi offerti nei grattacieli che fanno il solletico a un cielo che non conosce nuvole. Cosa possono saperne, dunque, dell’Emirato e della Coppa del Mondo della vergogna? «Eppure se siamo qui, con un lavoro, è proprio grazie alla competizione» ci racconta il driver keniano. «Con i soldi che guadagno a Doha riuscirò a pagare l’università in Bangladesh a uno dei miei tre figli» sostiene da parte sua Hossain, su di giri. Entrambi dipendono dalla società Karwa, sia a livello professionale, sia per quanto concerne l’alloggio. E nelle giornate migliori - 16 ore fra traffico, strade bloccate a sorpresa e aria condizionata - riescono a racimolare all’incirca 1000 rial. Né più, né meno, il salario minimo introdotto da qualche anno nell’Emirato. Per intenderci, 260 franchi. «Non appena entrano sul conto, giro questi soldi alla mia famiglia» aggiunge Hossain. «Per un futuro migliore». Molti degli autisti attivi in Qatar, d’altronde, riescono a guadagnare abbastanza per garantirsi un domani in Nordamerica. In Occidente.

Un disegno perfetto, insomma. Tanto che se fosse stato seduto al nostro fianco, il CEO dell’evento Nasser Al Khater avrebbe probabilmente applaudito. Oltre a quella di grandezza, la famiglia reale e i suoi più stretti collaboratori hanno d’altronde la mania del controllo. Telecamere e agenti di polizia ovunque. Senza calcolare le figure in borghese e - come denunciato da diversi media - il potere occulto delle due applicazioni che ogni giornalista e tifoso dovrebbe scaricare all’arrivo: Ehteraz (per le informazioni relative alla pandemia) e il lasciapassare Hayya. Se si trasformerà in ahia, lo scopriremo più avanti. O forse mai. Perché - come già scrivevamo - o si accetta di convivere con le molteplici contraddizioni del Paese ospitante, o si rischia di perdere l’orientamento di una manifestazione che rimane pur sempre sportiva.

Poi, certo. La sensazione di vivere un Mondiale artificiale è insistente. Almeno per ora. Il primo Uber sul quale siamo saliti, per dire, aveva buona parte degli interni incellofanati. Non è riuscito a portarci a destinazione, al vecchio porto di Doha. E, per l’appunto, avremmo dovuto prevederlo una volta a bordo. Al Souq Waqif, per fortuna, odori, volti e rumori ci hanno suggerito qualcosa di più autentico. Parliamo del vecchio mercato cittadino, un dedalo di vicoli che profumano di cardamomo. Qui, a ogni ora del giorno, si riversa il popolo dei Mondiali, mischiandosi ai thawb, le tuniche bianche, con copricapo dello stesso colore e cordoncino nero annesso, indossate dagli uomini qatarioti. In uno dei ristoranti della zona, storditi dalla nenia e dagli spettacolini inconsistenti degli animatori locali, abbiamo potuto osservare anche diverse donne velate. Molto allegre. In gruppo e non accompagnate da marito e figli. Verità o anch’essa finzione?

Scrutando i volti della popolazione indigena - appena 300.000 anime su quasi tre milioni di persone - fatichiamo comunque a intercettarne i pensieri. L’ostentazione di potere e ricchezza che li accompagna sembra nascondere anche un certo disagio. Nonostante la birra vietata negli stadi. Nonostante le urla di benvenuto di Gianni Infantino e il comitato organizzatore.

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