«Una parte del mio cuore è a Cornaredo»



Paolo Tramezzani è tornato. L’ex tecnico di Lugano e Sion da pochi mesi è a Cipro, all’Apoel Nicosia. Una sfida difficile e affascinante, come piace al mister emiliano. Ma la partita più importante è quella che ha vinto sua moglie Elisa, cui era stata diagnosticata una grave malattia quando il «Trame» era in Vallese. «Quel periodo terribile mi ha insegnato tantissimo» racconta l’allenatore che regalò l’Europa ai bianconeri e che all’Apoel, adesso, viaggia alla media di due punti a partita.
Mister, partiamo proprio dall’Apoel. Statistiche alla mano il suo impatto è stato ottimo: 14 punti in 7 partite. Cifre da Lugano dei tempi d’oro. Cosa può dirci al riguardo?
«Bisogna fare una premessa. L’Apoel è un club importante a Cipro. Negli ultimi dieci anni questa squadra ha giocato in Champions, arrivando perfino ai quarti. Da sei stagioni filate vince il campionato nazionale. Le cose sono precipitate in estate, con l’eliminazione ai preliminari di Champions e poi quella ai playoff di Europa League. Per giunta ai rigori. Il doppio smacco ha avuto ripercussioni sul campionato, con un inizio piuttosto traumatico, e sulla Supercoppa cipriota volata altrove. La società così ha optato per un avvicendamento in panchina».
Cosa ha detto o fatto per riportare in alto i gialloblu?
«Altra premessa. Il campionato è molto difficile e per nulla scontato. Le altre si sono rinforzate. Penso in particolare all’Apollon Limassol che ha sconfitto la Lazio in Europa League ma anche all’AEK Larnaca fresco di successo sullo Zurigo sempre in campo internazionale. I miei giocatori avevano perso certezze, ho cercato di riportarle in squadra».
Il Tramezzani cipriota è lo stesso che abbiamo conosciuto a Cornaredo, fra abbracci virili e rapporti strettissimi con i giocatori?
«Io ho bisogno di questa vicinanza. Di sentire un legame fra me e i giocatori. In definitiva della fiducia. Ho bisogno che tutti credano nella mia proposta di lavoro e mi vengano dietro. È quello che ho sempre cercato nelle mie avventure. A Cipro ho lavorato tanto sulla fase di non possesso, proprio nell’ottica di ridare certezze allo spogliatoio e soprattutto equilibrio. Prima del mio arrivo l’Apoel aveva preso sette gol in due partite. Non era normale. Nelle sette partite sin qui disputate, abbiamo incassato soltanto quattro reti. Sistemata la difesa, ho esposto i miei concetti e le mie idee per l’altra fase. Quella di possesso. Lunedì siamo passati a tre dietro e abbiamo vinto 5-1. Al di là del risultato, credo sia stata la nostra miglior prestazione».
Lei non aveva più allenato dopo l’esonero incassato a Sion, complice anche la malattia di sua moglie Elisa. È stato difficile tornare in campo e riprendere i ritmi del lavoro?
«Un po’ sì, lo ammetto. Mi ci sono voluti alcuni giorni per riabituarmi al campo, alla quotidianità, al lavoro. La voglia, la passione e la grinta erano e sono quelle di sempre, tuttavia all’inizio mi vedevo fuori giri».
La forza delle donne è emersa anche in una circostanza sfortunata: Elisa ha lottato e vinto la sua battaglia. Mister, cosa le ha lasciato quel periodo?
«Mi ha fatto tornare con i piedi per terra. Non mi ero mai fermato a riflettere. Ero stato in Albania, poi a Lugano. Venivo da periodi felici sul piano professionale e credevo, scioccamente, che nel calcio e nella vita tutto sarebbe stato sempre così facile. E invece no. Non augurerei a nessuno di passare quello che abbiamo passato noi. Tuttavia ho imparato tanto. Sembrerà banale dirlo, ma nella vita non c’è nulla di scontato. Bisogna godersi le piccole cose. E vivere ogni giorno. Io non ero così. Non mi fermavo mai per dire ‘‘adesso me la godo’’. Ero quello che dopo una vittoria pensava già alla prossima sfida. Eccolo, il segno che il percorso di Elisa ha lasciato dentro di me».
Avete appreso della malattia durante la sua avventura a Sion. Il club, a partire dal presidente Christian Constantin, non vi ha mai lasciati soli. È quel tipo di calore necessario di fronte a situazioni difficili?
«Eccome. Il Sion si comportò in maniera splendida. Io avevo appena finito il campo di allenamento a Crans Montana e ad Elisa arrivò addosso questa cosa. Una rara forma di tumore alla colonna vertebrale. Ne parlai subito con Marco Degennaro e il presidente. Dissi loro che sarebbe stato meglio chiudere subito il rapporto di lavoro. Mi spinsero a continuare e nel frattempo si misero al lavoro per trovare i migliori medici del Paese. Constantin in persona fece una ricerca e individuò un’équipe all’avanguardia a Berna. Mia moglie venne operata il 15 di agosto. Successivamente, cominciò il periodo più complicato. Banalmente, divenne impossibile gestire la squadra e quanto stava succedendo ad Elisa. Facevo avanti e indietro fra Martigny, dove avevamo preso casa, e Berna. C’erano settimane in cui ero sul campo al massimo due volte. Avevo scelto Sion perché amo le sfide difficili. Ma ero in ginocchio e quando optarono per l’esonero, dopo la partita con il Lugano, ero sollevato».
La voglia di allenare le è tornata all’improvviso?
«È tornata alla fine della stagione scorsa, quando i controlli e gli esami a cui si era sottoposta Elisa hanno dato l’esito sperato permettendo così a mia moglie di tornare ad una vita normale. Prima ero concentrato esclusivamente su di lei. Tant’è che dopo l’esonero in Vallese mi sono rimesso a guardare calcio soltanto in febbraio. Una società italiana voleva ingaggiarmi e mi chiese di andare allo stadio a vedere una loro partita».
Nemmeno il Lugano ha guardato?
«Ecco, il Lugano era l’unica squadra che riuscivo a guardare durante la malattia di Elisa. Per il resto avevo staccato. Non pensavo al pallone, agli aggiornamenti e via discorrendo. In quei momenti pensi soltanto alla tua famiglia e speri che tutto si sistemi. Piano piano sono ripartito. Ho seguito diversi ritiri in Italia, ho visto vari metodi di allenamento e alla fine mi sono convinto: era arrivato il momento di tornare in pista».
Eppure la scorsa stagione (a dire il vero anche questa) il suo nome era stato accostato proprio ai bianconeri. Quanto c’era di vero?
«Per due volte e mezzo sono stato vicino ad un mio ritorno a Cornaredo. Il club si fece avanti nell’ottobre del 2017 e poi quando Pierluigi Tami venne mandato via. Ci fu una fiammata anche adesso, prima che arrivasse Fabio Celestini. Ma niente di veramente concreto a questo giro».
Significa che è ancora in buoni rapporti con Angelo Renzetti?
«Angelo non lo sento e non lo vedo dal giugno 2017, quando annunciammo la mia partenza da Lugano. Perciò io non posso dire di avere un rapporto con lui al momento. Sentimentalmente però sono legatissimo a Renzetti. È stato il primo presidente a darmi fiducia e a credere in me. Mi tengo stretto quei mesi vissuti fianco a fianco. Parlavamo di tutto».


La litigata post Young Boys allora fu ingigantita dai media?
«Diciamo che ci scontrammo soltanto quella volta. Era un periodo particolare, perché venivamo dalla sconfitta di Thun e io decisi di portare i giocatori a visitare una fabbrica. L’episodio fu ripreso dalla stampa e fece scalpore. Un pandemonio. Poi appunto perdemmo anche contro lo Young Boys e le cose nei giorni seguenti si complicarono ulteriormente».
La coppia però rimase unita...
«E questo fa capire quanto l’uno tenesse all’altro. Se non ci fossimo voluti bene ci saremmo separati».
Renzetti e Constantin: ci sono dei punti di contatto fra i due?
«Sono due presidenti esigenti. Entrambi pongono obiettivi chiari all’allenatore. Apprezzano la schiettezza. Nessuno di loro si è mai imposto a livello tecnico né si è intromesso nelle mie decisioni».
Della sua avventura a Lugano cosa rimane, oggi?
«I giocatori, dai titolari fissi a quelli che non andavano mai in campo. Poi il fatto di essere arrivato fra lo scetticismo generale, ma era giustificato visto che l’anno prima in panchina c’era un certo Zeman, e di essermene andato con un risultato. Negli ultimi mesi ho assistito a scene non da Lugano, con gente che si fermava in mezzo alla strada, scendeva dall’auto e veniva ad abbracciarmi».
Se tornasse a Cornaredo riceverebbe lo stesso affetto, considerando le frasi che pronunciò al suo addio fra cui quella delle piaghe?
«Non saprei. Ma sarei folle se in futuro non volessi tornare in un posto che mi ha trattato così bene. Le basi ci sono tutte. Lugano è una parte del mio cuore. Mia moglie mi dice sempre che quando finirò di portarla in giro per il mondo vuole stabilirsi in Ticino».
A Nicosia, come direttore sportivo, ha trovato una vecchia conoscenza bianconera: Domenico Teti, braccio destro di Pastorello a Cornaredo. Parlate mai di Lugano?
«Sì, anche se il mio e il suo Lugano sono di epoche diverse. Domenico mi voleva ai tempi del Novara, prima che firmassi a Sion. Mi conosceva bene ed è per questo che mi ha voluto a Cipro».
A Lugano è tornato il suo vice, Mirko Conte. Che effetto le fa?
«Sulle prime mi è sembrato strano. Lui a Cornaredo senza di me. Ma poi ci siamo sentiti e ci abbiamo riso sopra. Mirko è un fratello, sono felicissimo per lui e per i bianconeri. È pronto a camminare da solo e a diventare allenatore principale. A me ad ogni modo manca. Ora sono io ad occuparmi della difesa».
Le piace la squadra di Celestini?
«Innanzitutto mi piace Fabio. Per me è l’allenatore più bravo in Svizzera. Con lui ho sempre fatto fatica. Sia con il Lugano sia con il Sion. Il suo Losanna non sapevi mai come prenderlo. Se aspettarlo o uscire alto. Mi piace anche la squadra. Sono mancati i risultati ultimamente, ma per una questione di dettagli. Se gli episodi fossero girati in un altro modo, staremmo parlando di vittorie e non di pareggi o sconfitte».
E il Sion attuale?
«È una società di tradizione, che si pone obiettivi alti e che non si accontenta di una normale salvezza. Ha Kasami: è di un’altra categoria. E poi c’è il ragazzino, Toma. Penso che a giugno ma forse già a gennaio volerà in Bundesliga».
Campionato svizzero contro campionato cipriota: chi vince?
«A Cipro il campionato è pieno zeppo di stranieri, eppure anche la nazionale è in crescita. La qualità non manca, basti pensare che le squadre cipriote fanno spesso i gironi delle coppe europee. Se devo fare un paragone, allora dico che qui il ritmo è più basso. Ma in campo c’è una buona organizzazione. D’altronde gli allenatori che vanno per la maggiore sull’isola sono spagnoli e portoghesi. A livello di ambiente non c’è paragone: il calcio qui è una religione. Peccato però che gli ultras stiano scioperando a causa della tessera del tifoso, introdotta a partire da questa stagione. Non vanno allo stadio né in casa né in trasferta e a noi la frangia più calda manca tantissimo. La curva dell’Apoel è fra le migliori. Andate a guardarvi i loro video su YouTube».