Un’arma in più, per combattere lo spauracchio dei medici sportivi

Mal di testa cronico. Luce del sole insostenibile. Suscettibilità ai rumori. Vista annebbiata. Da oramai dieci anni, l’ex portiere dell’Ajax e della nazionale croata Joey Didulica soffre. «Dopo il 2006 la mia vita è cambiata» ha raccontato di recente, chiedendo al sindacato mondiale dei calciatori FIFPro di riportare sotto i riflettori il tema dei traumi cranici e delle commozioni cerebrali. A dare il la al calvario di Didulica, nel 2006, era stata una violenta pallonata sul volto. Un episodio gestito malissimo a livello medico. E, tre anni più tardi, fatto precipitare da una ginocchiata alla testa da parte dell’attaccante uruguaiano Luis Suarez.
In gioco, va da sé, c’è la salute di chi si lancia per colpire o bloccare un pallone. Non solo. Anche la vita. Basti pensare al caso più eclatante: quello di Jeff Astle. L’ex attaccante inglese del West Bromwich morì nel 2002, all’età di 59 anni. La causa? Una malattia degenerativa del cervello dovuta - stando alle analisi compiute a posteriori - alle continue lesioni provocate dagli impatti con la sfera nei colpi di testa. Il linguaggio medico la definisce encefalopatia traumatica cronica, spesso accorciata in CTE.
Una misura sperimentale
Qualcosa ora si muove. Sì, perché mercoledì l’UEFA ha annunciato che il Campionato europeo Under 21 - in agenda a fine marzo - sarà teatro di una sperimentazione. Nel dettaglio, ogni squadra potrà utilizzare una «sostituzione per trauma cranico» a partita, indipendentemente dal numero di cambi già effettuati. Gli obiettivi? Da un lato tutelare i giocatori, evitando loro il rischio di ulteriori impatti potenzialmente dannosi. Dall’altro lanciare un chiaro messaggio a chi, questo genere di situazioni, tende ancora a sottovalutarle. Con tutte le conseguenze del caso. «Siamo infatti di fronte a una delle problematiche più importanti della medicina sportiva» sottolinea Marco Marano. Il team doctor di FC e HC Lugano, non a caso, parla apertamente di «spauracchio» per chi, come lui, si occupa della salute dei giocatori ed è chiamato a intervenire a partita in corso. «La gestione della fase acuta - precisa - è cruciale. Sbagliare, in queste circostanze, potrebbe provocare ricadute serie sul paziente». Ecco perché l’accresciuta sensibilità di chi governa il calcio è benvenuta. «Anche se la nostra categoria spinge da tempo in questo senso» indica Marano: «A ogni congresso specialistico, l’argomento viene sollevato. Purtroppo capita ancora di vedere troppi errori. È successo anche in occasione degli ultimi Mondiali ed Europei».
«Cruciale imporsi sull’atleta»
Restiamo al calcio. Come riconoscere, insomma, se uno scontro aereo, una pallonata o un calcio involontario ad altezza testa, presentano più o meno controindicazioni? «Fanno stato le condizioni cliniche dell’atleta» osserva Marano. Per poi chiarire il concetto: «Già la dinamica di un impatto, a mio avviso, può essere indicativa sull’eventuale insorgere di un trauma cranico. Di qui l’importanza di seguire e capire i movimenti che scandiscono un match. Poi, naturalmente, vi sono i sintomi. Perdita di coscienza, contrazione involontaria degli arti superiori, retrazione della lingua». A fronte di simili reazioni, afferma convinto il team doctor bianconero, «il ritorno in campo va assolutamente impedito. Davvero, il medico della squadra deve imporsi sul giocatore ed eventualmente sull’allenatore, i quali - in trance agonistica - potrebbero scambiare dei disturbi momentanei con l’assenza di un problema concreto. Non esiste. I protocolli, addirittura, chiedono d’intervenire in presenza anche di soli sospetti».
L’hockey e i suoi pericoli
A facilitare il tutto, appunto, dovrebbe essere la sperimentazione voluta da Nyon. «Sarà interessante osservare come viene applicata la regola e se in qualche modo vi saranno degli abusi» sostiene Marano: «Un irrobustimento della stessa, ad ogni modo, sarebbe auspicabile. Magari concedendo ai medici di fermare gli incontri per qualche minuto, così da prendere in considerazione tutti gli elementi, senza troppa pressione». Con questo genere di decisioni, prosegue il nostro interlocutore, una società calcistica ha a che fare sporadicamente. «In media direi meno di cinque volte in una stagione» rileva Marano. «Rispetto al passato, ora però si punta a una riabilitazione di tipo attivo. Come minimo servono cinque giorni per riprendersi da una commozione cerebrale, ma ciò non impedisce all’atleta di cimentarsi in un lavoro leggero, di tipo aerobico».
Diverso, e perciò affrontato con maggiore urgenza e profondità, il discorso nell’hockey su ghiaccio. «In questo caso i giocatori per club con traumi cranici salgono a più di dieci in un’annata. La probabilità di episodi gravi aumenta, così come l’importanza degli strascichi. Le carriere finiscono, magari anzitempo, mentre gli impedimenti e i fastidi non se ne vanno». Per dire: in casa bianconera Elia Riva è sempre ai box, dopo la brutta carica alla balaustra subita a Ginevra a inizio anno, mentre Sandro Zurkirchen ha impiegato mesi per riprendersi. Problemi d’equilibrio, testa e occhi che reagiscono in ritardo: tutto fuorché una situazione ideale per un portiere. «Non si scappa, gli assi d’intervento restano due» ricorda Marano: «La repressione, con punizioni adeguate a fronte di falli pericolosi. E l’evoluzione del materiale, caschi e balaustre in primis».