Calcio

Zico: «Nella mia vita non avevo mai visto un termosifone»

Il brasiliano, tra i più forti giocatori di tutti i tempi, ripercorre le tappe che hanno segnato la sua carriera in giro per il mondo - Dal Flamengo al Giappone, passando per il trasferimento clamoroso all’Udinese e l’amichevole contro il Lugano a Cornaredo
Arthur Antunes Coimbra, presto 68 anni, a tutti noto come Zico ©Shutterstock
Stefano Olivari
25.02.2021 06:00

La prossima settimana, il 3 marzo, Arthur Antunes Coimbra, per tutto il mondo Zico, compirà 68 anni ma è ancora lontano da operazioni nostalgia legate ad un anniversario. È infatti direttore tecnico dei Kashima Antlers e parliamo con lui poco dopo il suo arrivo in Giappone, per l’inizio della stagione 2020 di quella J-League che da giocatore proprio dei Kashima Antlers, all’inizio degli anni Novanta, fece entrare nel cuore di una nazione.

L’amore per il Giappone

Invece di godersi a Rio De Janeiro la numerosa famiglia e i tanti soldi guadagnati in dieci paesi diversi, Zico continua a rimettersi in gioco: «A casa sto bene, ma in Giappone mi hanno sempre trattato benissimo ed io sono grato ai giapponesi di questo». I grandi amori nascono per caso: «Nel 1989 avevo lasciato il calcio e l’anno dopo ero diventato in Brasile l’equivalente del ministro dello Sport, con il presidente Collor de Mello. Poi nel 1991 un’amichevole in Giappone mi fece tornare la voglia, ma soprattutto ricevetti un’offerta dalla squadra che poco dopo sarebbe diventata i Kashima Antlers e che all’epoca giocava in serie B». L’impatto di Zico sulla cultura giapponese è stato tale che ancora oggi viene definito «Dio del calcio». Una divinità che da tecnico ha portato il Giappone al trionfo in Coppa d’Asia, nel 2004.

O lui o l’Austria

Il trasferimento più clamoroso nella storia di Zico e forse del calcio mondiale è però stato quello dell’estate 1983, dal Flamengo all’Udinese. In pratica il più grande calciatore del mondo, insieme a Maradona e Platini, lasciava il club con cui aveva vinto tutto, Libertadores e Intercontinentale comprese, per andare in una provinciale italiana. «L’anno prima Rivera mi aveva cercato per il Milan, poi c’erano stati contatti con altre squadre europee. Ma non me la sentivo di lasciare il Flamengo con cui avevo vinto tutto, così rimandai. E nel 1983 l’Udinese fu, a dire il vero, l’unico club che si presentò dal Flamengo con i soldi per il mio cartellino». Pagato 6 miliardi di lire (circa 8,5 milioni di franchi, al cambio dell’epoca), anche se sulle cifre di quel calcio bisogna sempre mettere l’asterisco. Un trasferimento che forzò i regolamenti e che la federazione italiana cercò di impedire. Memorabili le manifestazioni a Udine con i cartelli «O Zico o Austria».

«Il freddo? Terribile»

L’impatto con il calcio italiano fu eccezionale e Zico trascinò l’Udinese nelle zone alte della classifica con gol, soprattutto su punizione, assist, ed una leadership riconosciuta da compagni ed avversari: «Con Causio, Virdis, Mauro e tutti gli altri la squadra era molto buona e la prima parte della stagione andò bene. Purtroppo poi i problemi finanziari, uniti ai miei infortuni, fecero finire abbastanza presto quel sogno. Sfiorammo la qualificazione alla Coppa UEFA e nella stagione successiva le cose andarono peggio». Zico non lo dice, ma fra le cause dei suoi infortuni c’era anche una super-attività in tante amichevoli infrasettimanali per far quadrare i conti, tipo quella di Lugano che capitò proprio nel momento magico di Zico all’Udinese. Che del calcio italiano e dell’Italia conserva comunque un ottimo ricordo, tranne che per un particolare: «Il freddo, terribile. Non avevo mai visto in vita mia un termosifone e non sapevo come funzionasse».

Tre Mondiali, una sola sconfitta

Lo Zico condiviso, quello amato dalla Svizzera al Brasile, dall’Italia al Giappone, è però quello di tre Mondiali: Argentina 1978, Spagna 1982 e Messico 1986. Tre edizioni che il Brasile di Zico avrebbe potuto tranquillamente vincere: nel primo caso la Selecão allenata da Coutinho fu beffata dai padroni di casa con il famoso 6-0 al Perù, nel secondo la squadra di Telé Santana si schiantò contro l’Italia di Bearzot e Paolo Rossi, nel terzo, ancora con Santana in panchina, uscita ai rigori nei quarti contro la Francia, dopo una partita epica. «Tre grandi nazionali, forse quella che mi ha dato più piacere è stata quella del 1982 e penso sia stato così anche per gli spettatori. Mi piace ricordare che in tre Mondiali che ho giocato ho perso una sola partita, quella contro l’Italia».

Maradona o Pelé?

Nel 1982 il Brasile sconfisse l’Argentina di Maradona, una rivalità soltanto sportiva: «Brasile-Argentina viene sempre montata, ma io di Maradona ero amico e lo sarei diventato ancora di più una volta finite le carriere. Ogni volta che lo vedevo gli dicevo per scherzo sempre la stessa cosa: “Sei il migliore, ma non mi hai mai battuto”. La sua fine è stata un dolore enorme». Impossibile resistere alla domanda delle domande: Maradona o Pelé? «Quando Dio ha pensato ad un giocatore di calcio ha pensato a Pelé: gli ha dato tutto e lui in campo è stato tutto. Pelé è un simbolo, ma umanamente ho sempre avuto più affinità con Maradona».

Le botte e i campi senza erba

Cosa sarebbe stato Zico, ma il discorso vale anche per gli altri campioni della sua generazione, nel calcio del VAR, senza difensori killer? «Certo ai miei tempi chi provava a giocare a calcio non era tutelato, ma non ce l’ho mai avuta con i difensori che mi marcavano, non mi ricordo il nome nemmeno di quelli che mi picchiavano. Ce l’ho invece con i loro allenatori, che da bordocampo chiedevano di fare male. Una volta funzionava così». Al di là delle botte contava anche l’aspetto tattico: «Essere marcati a uomo era un’altra cosa, rispetto al poter ricevere il pallone e guardarsi intorno. Se poi alle marcature strette si associavano campi irregolari allora si capisce come sia difficile confrontare epoche diverse. Qualche giorno fa stavo guardando su You Tube un Udinese-Inter della mia epoca e solo adesso, a quasi 40 anni di distanza, mi sono accorto che non c’era erba. Era difficile anche stoppare il pallone».

Una panchina da evitare

Zico è grato alla vita e al calcio per tutto ciò che gli hanno dato, per carattere ricorda più le sue fortune che le occasioni perse: «Da bambino avevo un unico sogno: giocare con la maglia numero 10 del Flamengo. Non ho mai pensato al professionismo, anche se avevo due fratelli calciatori, né alle vittorie: volevo solo far parte del Flamengo. Dio è stato generoso con me». Un’identificazione con la squadra del cuore che gli ha precluso la panchina della nazionale: «Diverse volte mi è stata offerta, ma ho preferito evitare. L’allenatore della nazionale non deve secondo me essere associato ad un club».

Un ruolo che non esiste più

I fuoriclasse di solito non lasciano eredi, nel suo caso c’è anche una spiegazione tattica: «La mia posizione nel calcio di oggi non esiste, a prescindere dal modulo. È una questione di libertà: nessun allenatore lascerebbe senza indicazioni precise un suo giocatore, per quanto forte sia. Forse un po’ così è Messi, ma anche lui è molto più inquadrato rispetto a quanto sarebbe stato nel calcio degli anni Settanta e Ottanta».

Il 1983 e i dodicimila di Cornaredo

Zico a Cornaredo, il 17 ottobre del 1983 è accaduto davvero. Quel lunedì dodicimila ticinesi ammirarono dal vivo uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, che a luglio era passato dal Flamengo all’Udinese. L’amichevole di Lugano è rimasta famosa perché è quella in cui si è visto il miglior Zico, prima dei suoi tanti infortuni e dei problemi finanziari del club, in un’Udinese che aveva iniziato alla grande il campionato di Serie A. La squadra allenata da Enzo Ferrari, che alloggiava al Country Club di Origlio, si presentò in campo senza Edinho e Mauro, ma nessuno dei dodicimila protestò: tutti erano lì non per l’Udinese (che comunque schierava gente come De Agostini, Causio e Virdis) ma per il mito del Brasile che l’anno prima aveva incantato tutti al Mondiale. E il «Galinho» non li deluse: grazie al gol di Zwahlen il Lugano arrivò all’intervallo in vantaggio, ma nel secondo tempo Zico si scatenò con cinque gol, in tutti i modi possibili, dal rigore al colpo di testa, uniti a un palo, a un gol annullato e a tanti assist, per il 6-1 finale.

«La partita fu organizzata per celebrare i 75 anni del FC Lugano e, a conti fatti, la festa prevalse sull’agonismo» ricorda Danilo Castelli, che quel match ebbe l’onore di disputarlo. «L’obiettivo iniziale era il Napoli e, va da sé, Maradona. Ma per questioni anche di sponsor, la società decise di virare sull’Udinese». L’Udinese di Zico. «A quei tempi il più grande, con lo stesso Diego e Platini. Il brasiliano era un faro sia della squadra friulana sia del grande Brasile». Castelli rammenta ancora l’entusiasmo della gente. «Dodicimila persone a Cornaredo non si scordano, certo. Non credevano ai loro occhi: in campo giostrava infatti un’icona, un campione del calcio mondiale». Zico, dicevamo, li ripagò a suon di reti e giocate. «A me non piace perdere neppure a rubamazzetto» rileva Castelli. «Prima della partita, dunque, ammetto di aver accarezzato l’idea di finire sulla prima pagina della Gazzetta dello sport. Come? Con un’entrata delle mie, con la quale mettere fuori gioco il brasiliano». Ma quella era una festa e alla fine prevalse lo spettacolo.