Calcio

Daniele Orsato, l'elettricista con il fischietto in bocca

Vincitore del premio Giulio Campanati quale migliore arbitro del Mondiale in Qatar, il 47.enne di Recoaro Terme ha raccontato la sua esperienza davanti al pubblico ticinese
Daniele Orsato a colloquio con Luka Modric in occasione della semifinale del Mondiale qatariota tra Argentina e Croazia. © AP/Frank Augstein
Maddalena Buila
10.01.2023 16:15

In Qatar, tra le altre, ha arbitrato la partita d’esordio del Mondiale - tra il Paese ospitante e l’Ecuador - e la semifinale tra Argentina e Croazia. Come souvenir dell’esperienza araba Daniele Orsato ha portato con sé il premio Giulio Campanati. Un riconoscimento che non è che la punta dell’iceberg di una carriera iniziata anni fa e portata avanti in parallelo con quella di elettricista, il sogno del 47.enne italiano sin da quando era bambino.

Semifinale di Coppa del Mondo del 13 dicembre scorso. In campo Argentina e Croazia, Messi contro Modric. Il direttore di gara è Daniele Orsato. Con questa partita si chiude l’esperienza mondiale dell’arbitro italiano che tornerà in patria con il premio Giulio Campanati, destinato al migliore fischietto del torneo. «Quando sono partito per il Qatar non avevo per nulla in mente di ambire a questo riconoscimento. Durante la cena della mia sezione, tenutasi in giugno dell’anno scorso, dissi a tutti che per me il Mondiale sarebbe stato tutto fuorché una vacanza. Partivo per dare il massimo», ha raccontato Orsato nel corso dell’incontro con il pubblico tenutosi lunedì sera al cinema Lux di Massagno.

Elettricista prima che fischietto

Un’occasione che il 47.enne di Recoaro Terme ha voluto sfruttare per condividere la sua esperienza soprattutto coi giovani arbitri presenti in sala. Una carriera cominciata nell’ottobre del 1992. «In realtà “carriera” è una parola che non mi piace - ha subito chiarito il fischietto azzurro -. La mia è un’esperienza arbitrale. Che non deve essere l’unico obiettivo nella vita di un direttore di gara. Anzi. Deve andare a braccetto con quella quotidiana. Famiglia, lavoro, studio. Io ho giocato a calcio fino alla prima categoria, fino a giugno ‘92. Ma il mio sogno era fare l’elettricista. A quel tempo non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di fare l’arbitro di calcio. Anzi. Il direttore di gara per me era uno sfigato. Uno che prendeva solo insulti. L’unica cosa che mi frullava in testa era la professione dei miei sogni. Io abito a Recoaro Terme. Un piccolo paesino in provincia di Vicenza. E a 8 anni giravo per casa smontando tutto ciò che aveva a che fare con la corrente elettrica, perché volevo capirne il funzionamento. A scuola andavo bene, avevo dei buoni voti, avrei potuto ambire anche ad altre scuole. Ma io volevo solo fare l’elettricista. Il giorno dopo aver conseguito il mio diploma iniziai a lavorare. Si era avverato il sogno della mia vita. Indossando la tuta blu con le cerniere provai la stessa emozione di Messi quando ha alzato la coppa al cielo. Partii con la mia cassetta degli attrezzi e la mia Vespa, in direzione della stazione del bus che avrebbe accompagnato me, e un’altra manciata di ragazzi, sul posto di lavoro».

Il giorno in cui diventai elettricista, il sogno di una vita, iniziò il mio percorso arbitrale.
Dianele Orsato, arbitro internazionale

Il foglietto del fratello

Dire che l’arbitraggio era scritto nel destino di Daniele Orsato è dire poco. Il suo primo giorno da elettricista ha infatti combaciato con il suo iniziale approccio con il mondo delle giacchette nere. «Incontrai un ragazzo che mi chiese se giocassi a calcio. Gli dissi di aver militato per diverso tempo in una società che poi era fallita. Lui allora mi propose di fare l’arbitro. La mia risposta: “Ma sei matto?”. Lui non si perse d’animo, ribadendo che sarebbe stata una bella esperienza. Gli domandai quando avrei dovuto cominciare e lui mi informò che il corso sarebbe iniziato quella sera stessa, a Vicenza. Per mio papà, però, era una destinazione troppo lontana, così andai a Schio. Mi presentai in sezione, dove mi spiegarono cosa avrei dovuto portare. Allora si parlava di codice penale. Quella sera, finita la riunione, domandai quanti anni ci volessero per arrivare in Serie A. Era l’ottobre del ‘92. Mi risposero elencandomi tutte le varie categorie. Io ribadii che mi interessavano gli anni. Ci volevano 16-17 anni. Tornai a casa. Mia mamma era sdraiata sul divano. La svegliai e le dissi che in 16 anni sarei andato in Serie A. Lei si girò dall’altra parte. Entrai in camera, che condividevo con mio fratello, e gli dissi la stessa cosa. Il 4 luglio del 2006 mi trovavo su un’impalcatura, montando dei fari, quando ricevetti una telefonata di circa 6 secondi da Luigi Agnolin. Mi disse: “Orsato, complimenti, è stato promosso in Serie A. Ci vediamo a Sportilia”. E appese. Io mi sedetti sulla cassetta degli attrezzi e non ci potei credere. Urlai ai miei colleghi di mollare tutto, perché dovevamo festeggiare. Quando rientrai a casa e lo dissi alla mia famiglia mio fratello tirò fuori un foglio datato ottobre 1992. Diceva: “Cazzata di mio fratello: 16 anni e vado in Serie A”. Il 17 dicembre 2006 arbitrai la mia prima partita nel massimo campionato italiano. Non fatevi mai dire da nessuno cosa non siete capaci di fare».

Il mio rapporto con i giocatori? Sempre basato sul rispetto. Con De Rossi ci si prendeva anche in giro.
Daniele Orsato, arbitro internazionale

«Difficile è rimanere ai vertici»

Una storia, quella di Daniele Orsato, fatta di traguardi raggiunti. Per centrarli, però, il 47.enne ha dovuto superare diversi ostacoli. Considerando anche di gettare la spugna. «Appena tornato dal servizio militare, mi presi un periodo di congedo dall’arbitraggio. A 18 anni un ragazzo ha in mente tutto fuorché lanciarsi seriamente in quest’ambito. Poco tempo dopo mi accorsi però che mi mancava scendere in campo col fischietto. Fu in quel momento che tornai sui miei passi e decisi di coltivare il mio obiettivo. Un’esperienza che mi ha anche forgiato il carattere. Io ho pianto fino alla terza elementare perché non volevo andare a scuola. Ero timido e timoroso. L’arbitraggio mi ha fatto diventare molto più forte. Quante volte mi sono infatti sentito dire che sono un asino, che non so arbitrare, che sono scarso... E non parlo di Serie A, ma dei campetti di periferia. Non bisogna però scoraggiarsi. Chi mi grida quotidianamente addosso è il primo a non essere in grado di fare questo mestiere». Tra le difficoltà incontrate da Orsato, c’è stata anche quella relativa alla lingua. «Io vengo da un paesino dove abbiamo sempre dovuto arrangiarci e aiutarci. E questa è forse stata la mia fortuna. Ho imparato a cavarmela. Quando alla C.A.N.C. mi chiesero se sapessi l’inglese e io risposi di no, volevano spedirmi a casa. Ma io sapevo che ero arrivato fin lì lavorando duramente, dunque presi lezioni per due anni due ore al giorno, finché imparai ad esprimermi. E poi sì, ho raggiunto anche il Mondiale a 47 anni, ma di fianco a me c’erano ragazzi trentenni. Ho dovuto sostenere test atletici e tecnici. Arrivare in cima non è difficile, lo è starci. Per farcela non bisogna mai dimenticare di farsi aiutare da chi ne sa più di noi. Io ho un mentore che ancora oggi mi consiglia. Persino durante le partite della Coppa del Mondo mi scriveva per ricordarmi di stare più attento su alcuni dettagli. Lui ha arbitrato fino alla terza categoria, ma non gli mancherei mai di rispetto perché io ho militato in Champions League o ai Mondiali».

La sudditanza della squadra forte non esiste, se mai è difficile gestire la pressione del grande stadio.
Daniele Orsato, arbitro internazionale

«Nasciamo presuntuosi»

Di fronte a tanti giovani arbitri Daniele Orsato ha elencato gli aspetti che, a suo modo di vedere, sono cardine per la carriera di un arbitro. «Rispetto, ascolto, spirito di sacrificio e umiltà. L’arbitro d’altronde nasce presuntuoso e permaloso. Ed è giusto così, perché in campo non può far percepire che ha sbagliato, altrimenti è la fine. Le squadre con cui si lavora sono sempre le stesse e i calciatori alla fine ti conoscono. Ecco perché è importante imparare subito a farsi conoscere e rispettare. Un esempio concreto? Il mio rapporto con Daniele De Rossi. Negli ultimi tempi non ci scontravamo neanche più. Lui sosteneva che con me non valeva la pena discutere, e io non volevo litigare. Ci prendevamo anche po’ in giro simpaticamente. Un rapporto creato negli anni grazie al rispetto che c’è sempre stato. Sempre restando in tema. Non dimenticherò mai la prima volta che arbitrai il Milan a San Siro. Era il 2008. Milan-Siena. Mi promisi di non alzare gli occhi al terzo anello almeno per i primi 20 minuti per non rischiare di scombussolarmi. Il primo ammonito di quella partita fu un certo Paolo Maldini. Agli inizi mi veniva spesso d’istinto estrarre subito il cartellino. E così feci. Lui venne da me e mi chiese se avessi idea di quello che stavo facendo. Mi disse: “Vattela a guardare in TV per capire se questo è un fallo da ammonizione”. Io gli risposi: “Sai, io abito in un paese piccolo, la TV non è ancora arrivata”. Mi raggiunse poi il capitano del Siena, Simone Vergassola, che mi chiese dove trovassi il coraggio di arrivare a San Siro e trattare così Maldini. Io gli dissi che per me portavano entrambi la stessa fascia sul braccio. Quel giorno mi guadagnai il rispetto. La gente deve capire che la storia della sudditanza della squadra forte non ha senso. Esiste la pressione dello stadio grosso, quella sì. Ma gli arbitri non guardano le maglie, perché hanno mille cose a cui pensare. E sono inoltre i primi ad accorgersi se sbagliamo. E quando capita? Pazienza. Succede a tutti. L’importante è dare sempre il meglio di sé».