Anche gli arbitri piangono

Essere un arbitro. Sul terreno verde è un uomo solo. È il perfetto capro espiatorio. Ha tutti contro: tifosi e squadre, a prescindere. Rappresenta il nemico per antonomasia, il potere che vessa, deve fare rispettare le regole. Un tempo il suo giudizio era insindacabile, poi è arrivata la moviola, poi la Televisione e infine la Var. E tutto è cambiato. Il suo ruolo è delicato, il campo è grande, una prateria sterminata, il calcio moderno è veloce, i calciatori sono atleti straordinari, tenere tutto sotto controllo è quasi impossibile. Gli arbitri non parlano, non rilasciano dichiarazioni, nemmeno quando smettono di fischiare, sono tenacemente chiusi nel loro mutismo pubblico. La riservatezza è sacra. Fanno parte di una 'casta', che si difende strenuamente, è autoreferenziale. Si valutano, si promuovono in maniera 'arbitraria'. Sono consapevoli del ruolo delicato che svolgono, hanno un obiettivo: tenersi forte e stretta la discrezionalità di decidere. Percepiscono anche lauti e sostanziosi compensi. Eppure sono umani. E anche loro non possono resistere alle emozioni prima, ai sentimenti dopo. Piange commosso e rattristato Daniele Orsato. Ha 48 anni, il limite d'età dei 45 anni non c'è più, ma l'italiano, a fine stagione, si ritira. Ha fischiato per 56 partite nelle coppe internazionali. Lo aspetta ancora il Campionato europeo. E dopo Psg-Borussia ecco le lacrime. Il professionista forte e carismatico versa lacrime fanciullesche, non rabbiose ma nostalgiche. Niente più boato del Santiago, niente più urlo dell'Old Trafford, niente più luci della ribalta. L'avventura sta per giungere alla sua conclusione definitiva. E non c'è ritorno. Tutto si è compiuto. Non si è fatto inibire dal pudore e ha voluto esternare le sue pulsioni. Rimarranno i ricordi e anche tante polemiche, ma questa è un'altra storia che probabilmente un giorno verrà raccontata, se il nostro infrangerà il muro del silenzio. Perché le parole sono ancora importanti.
(Foto Keystone)