Perché il Sassuolo è così odiato?

Se i tifosi di tutte le squadre di Serie A si mettessero a cercare una cosa, una cosa soltanto, che li mette tutti d’accordo, questa sarebbe certamente l’odio per il Sassuolo. Tutti i tifosi di tutte le squadre di Serie A si direbbero d’accordo, nemmeno quelli del Sassuolo si opporrebbero perché i tifosi del Sassuolo non esistono. Li avete mai visti voi, i tifosi del Sassuolo? Li avete mai sentiti? Tutti, ma veramente tutti, odiano il Sassuolo.
Non c’è un’altra squadra capace di attirare su di sé un odio ecumenico come quello di cui il Sassuolo è oggetto. In queste settimane in cui la squadra sta retrocedendo in Serie B dopo un decennio di Serie A giocata tra il medio e l’alto livello, nei luoghi in cui si fa la chiacchiera calcistica (i gruppi Facebook, il Twitter calcio, le Storie Instagram) è festa grande, tra meme, sfottò, insulti, ricordi, rivendicazioni. Non è mai successo nella più che centenaria storia della Serie A che una squadra così piccola fosse l’oggetto di un odio così vasto, così condiviso.
È vero, il fatto che il Mapei Stadium fosse sempre quasi vuoto, e che quando fosse pieno lo fosse per merito dei tifosi arrivati a Reggio Emilia per seguire la trasferta della loro squadra, ha facilitato il lavoro dei malpensanti e delle malelingue: il Sassuolo solo come strumento finanziario del capitalismo calcistico, come veicolo commerciale di una potente famiglia di imprenditori, come hub del player trading – la parola che usano al posto di calciomercato.
Davvero si può odiare una squadra, e davvero una squadra si merita di essere odiata, perché negli anni ha giocato al gioco che tutte hanno accettato di giocare, meglio di quasi tutte quelle che hanno provato a giocarci? Cosa avrebbe dovuto fare, il Sassuolo? Vendere meno, vendere peggio?
La realtà è che chi dice di odiare il Sassuolo tifa squadre costruite con giocatori cresciuti e/o scovati e/o valorizzati dal Sassuolo. La realtà è che al Sassuolo, probabilmente, si può rimproverare di essersi mostrato troppo per quello che era: un esperimento economico. Nella maniera in cui il Sassuolo ha sempre rifiutato un’immagine di sé diversa dalla propria identità c’è persino un che di ammirevole: nessuno è stato ingannato, niente è stato frainteso. Il Sassuolo questo è stato, sempre e comunque, dall’inizio alla fine, nella buona e nella cattiva sorte.
Chi di player trading ferisce, di player trading perisce, si potrebbe dire. A furia di farlo meglio di tutti, il Sassuolo è finito a farlo troppo e basta. Anche questo è un errore certamente criticabile ma assolutamente comprensibile: quando si incassano duecento milioni di euro in due stagioni cedendo Frattesi, Locatelli, Raspadori, Traorè, Scamacca, Boga, etc., ci si immagina gli appetiti insaziabili dai quali si viene travolti in sede di mercato.
Il Sassuolo ha pensato di essere diventato non solo maestro del gioco, banco e mazziere, ma incarnazione dello stesso, suo simbolo: oggi si fa così e noi siamo così, sembrava dire il Sassuolo negli anni in cui la sua fase di espansione sembrava non incontrare ostacoli, non conoscere fine.
Ma la fase di contrazione alla fine è arrivata, inevitabile e brutale. E tutte le certezze acquisite, tutte le arroganze guadagnate, si sono rivoltate contro il Sassuolo. Anche se, si potrebbe dire che la fine del Sassuolo è iniziato quando è venuto meno al suo stesso modello: quando ha cominciato a cedere troppo, e troppo spesso, a incassare tanto ma a spendere comunque troppo (soprattutto in ingaggi). E come sempre succede, ci si è messa pure la sorte avversa, l’altra forza, oltre a quella economica, che fa il destino forte o debole degli uomini: l’infortunio di Berardi, la bandiera riluttante che era sempre sventolata sul cocuzzolo neroverde.
Il Sassuolo, questo gioco, in Italia lo ha giocato meglio e più a lungo di tanti altri. Odiare il Sassuolo, per un tifoso oggi, nel calcio che è un’espansione del dominio del tardocapitalismo, è come odiare il gioco stesso. È come odiare se stessi. Solo che è più facile.
(Da rivistaundici.com)
(Foto Keystone/Campanini)