Quel patentino che fa tanto discutere

Ieri
Mattia Croci-Torti era a Berna per il suo ultimo giorno di esami e presto
otterrà il patentino Uefa Pro, con il quale potrà poi allenare in Super League.
A dire la verità l’ha già fatto la scorsa stagione con una deroga che gli ha
portato decisamente bene, visti gli eccellenti risultati ottenuti.
È stata una lunga trafila tra studi ed esperienze sul campo, un percorso lungo,
che solitamente dura 8-9 anni e che in questi giorni sta facendo parecchio
discutere.
È troppo complicato diventare allenatore di calcio in Svizzera?
Ma soprattutto, è necessario studiare tanto per diventare un buon allenatore?
Non si dice forse che un allenatore conti per il 20-30% e che adesso, più che
un tecnico, chi sta in panchina dev’essere una sorta di psicologo?
Il tema è tornato di attualità in queste ore, dopo che Hakan Yakin e Vincent
Cavin, hanno annunciato di voler proseguire il loro percorso di allenatori in
Turchia e rispettivamente Italia. In Svizzera gli ci vorrebbero ancora tanti
anni. Troppi.
Ricapitolando: uno dei più grandi giocatori del nostro calcio e l’attuale assistente
allenatore della squadra nazionale non concluderanno il loro percorso formativo
nel nostro paese.
Inutile dire che sembra una barzelletta o quasi.
Sarebbe giusto agevolare chi ha avuto in carriera delle esperienze importanti o
che ricopre cariche ad alti livelli nel calcio?
Probabilmente sì, anche perché se è giusto che tutti facciano un percorso
formativo, è innegabile che qualcuno ha avuto la fortuna o la capacità di
vivere delle situazioni che per altre persone sarebbero impensabili.
Mattia Croci-Torti, che ha concluso ieri i suoi esami a Berna, ha spiegato al
Blick che essere un allenatore è complicato, soprattutto dal punto di vista
della comunicazione con i giocatori. Insomma, tecnica e tattica vanno bene, ma
poi c’è la componente psicologica a svolgere un ruolo importante, se non
fondamentale.
Allenare in Seconda o Terza Lega aiuta a crescere come allenatore? Sicuramente,
ma quando si arriva alle soglie del professionismo poi tutto cambia. I
giocatori e i rapporti. Si entra in un’altra dimensione. Chi è capace di
gestire gli “amateur”, non è detto che sia adatto di tenere assieme uno spogliatoio
di professionisti. Quell’abilità è qualcosa che hai dentro, un dono innato che
può essere stimolato dalle esperienze passate come giocatore.
Se da una parte è giusto che tutti affrontino dei corsi per diventare allenatore (anche se sul corso di Swiss Olympics si potrebbe aprire un altro capitolo...),
contrariamente all’hockey su ghiaccio dove chiunque può sedere su una panchina,
dall’altra sarebbe forse auspicabile valutare le varie candidature e pensare a
percorsi ad-hoc.
Perché storie come quelle di Yakin o Cavin, o come Kukeli che andrà in Albania
a prendersi il patentino di allenatore in soli sei mesi, non fanno certo bene all’immagine
di chi lavora in quel mondo che oggi è un po’ sotto attacco.