Éric Landry: «Felice ad Ambrì, ma non avrò più tempo per giocare nel Blenio»
Dai palcoscenici della NHL con Calgary e Montréal alle partite di Terza Lega con il Blenio. Éric Landry, assistente allenatore dell’Ambrì Piotta ed ex head coach dei Ticino Rockets, si racconta.
Éric, si direbbe che in un mese da vice allenatore dell’Ambrì hai rilasciato più interviste che in tre anni da head coach dei Rockets.
«È normale. La National League è molto più seguita e attorno all’Ambrì c’è tanto interesse. Va bene così. I Rockets sono stati importanti, mi hanno permesso di tornare in Svizzera dopo 8 anni e di fare esperienza. Mi hanno insegnato a trovare sempre nuove soluzioni. Non solo sul piano tattico e organizzativo, ma anche a livello umano. Dovevo capire come incoraggiare i miei giocatori, aiutandoli a restare positivi anche se le vittorie scarseggiavano. Accettando quel lavoro, sapevo a cosa sarei andato incontro, ma ho dovuto comunque sfoggiare un certo spirito di adattamento di fronte ad alcuni imprevisti».
Tu incoraggiavi i giocatori a tener duro. Ma chi incoraggiava te?
«I giocatori stessi. Attraverso il loro impegno, la loro voglia di migliorare e la loro perseveranza, mi hanno aiutato ad andare avanti, a restare motivato. Sono stati preziosi anche il mio assistente Mike McNamara e il nostro direttore sportivo Sébastien Reuille. Ogni giorno era una sfida. Ma l’ambiente di lavoro ha reso le cose più piacevoli di quanto facessero pensare i risultati».
Al termine della scorsa stagione, Cereda e Duca hanno riflettuto sul loro futuro ad Ambrì. E sono giunti alla conclusione di voler rafforzare lo staff. Senti di aver portato l’energia che serviva?
«Lo spero. Sono qui per aiutare, per alleggerire il lavoro di Luca e di René Matte, permettendogli di tirare il fiato e di dedicare più tempo ad aspetti che forse prima venivano sacrificati. Il club ha investito su di me, creando un posto di lavoro che prima non esisteva. Voglio ripagare questa fiducia e affronto ogni giorno con un grande senso di responsabilità. Nei primi giorni si è trattato di trovare il mio spazio, di capire come muovermi senza pestare i piedi a nessuno. Ma poi tutto è andato velocemente, i compiti di ognuno sono ben definiti e tra di noi c’è una bellissima intesa».


L’HCAP si nutre del suo essere un «underdog». Lo sfavorito che cerca di sgambettare i più grandi. È una realtà che ti piace?
«Molto. È proprio così che ho sempre interpretato l’hockey: lavorare e perseverare per poter crescere e avanzare. In questi contesti mi sono sempre sentito a mio agio e la mia carriera da giocatore lo conferma. Penso ad esempio alla stagione 2005-06 nel Basilea: contro ogni pronostico ci qualificammo per i playoff, chiudendo la stagione regolare al sesto posto. È speciale ottenere risultati meravigliosi laddove le aspettative sono ridotte. Non ho mai vinto campionati, ma certe imprese, in certe realtà, valgono quanto la conquista di un titolo nazionale».
Però ad Ambrì le aspettative e le pressioni non mancano di certo. I tifosi non transigono sull’impegno, sullo spirito battagliero.
«Ed è giusto che sia così. È la base su cui lavoriamo, perché questa è l’identità del club. Ad Ambrì non solo la squadra, ma tutta l’organizzazione deve battersi quotidianamente».
Si dice che un giocatore di hockey non conosce la vera pressione se non ha mai indossato la maglia dei Montréal Canadiens.
«Io ci ho giocato e posso dire che i Canadiens sono semplicemente differenti da tutto il resto. In partita puoi fare dieci cose buone, ma sarà il tuo unico errore ad essere sottolineato dai media e dal brusio dei tifosi. Forse è una pressione eccessiva, ma se giochi lì la metti in conto. Cerchi di avere le spalle larghe. In fin dei conti, i tuoi primi giudici sono il coach e i compagni. Se fai quello che ti viene chiesto all’interno dello spogliatoio, puoi affrontare il mondo esterno a testa alta».
La maglia dei Canadiens era il tuo sogno d’infanzia?
«Da bambino il mio sogno era giocare in NHL, indipendentemente dalla squadra. Fino ai 18 anni mi sembrava impossibile arrivarci, invece ci sono riuscito. Aver giocato una cinquantina di partite a Montréal, dopo gli inizi nei Calgary Flames, è stata la ciliegina. Io da piccolo tifavo per l’hockey in generale, ma in famiglia erano tutti fan dei Canadiens. Sono cresciuto a Gatineau, al confine con Ottawa e l’Ontario. Gli Ottawa Senators non esistevano ancora, dunque in NHL la gente del posto seguiva i Canadiens oppure i Nordiques de Québec».
Maxim Lapierre disse di essersi integrato bene in Ticino perché gli ricordava il suo Québec: una minorità fiera e passionale.
«Per me vale lo stesso. Nel 2010, dopo due anni in Russia, sono tornato in Svizzera per giocare nell’Ambrì Piotta. Ebbene, il Ticino è il posto in cui mi sono sentito più a casa in assoluto. Qui le persone hanno lo stesso approccio familiare e caloroso dei québécois».
L’hai citata: parlaci della Russia.
«Ho ottimi ricordi dei miei due anni alla Dynamo Mosca, uno dei migliori club del Paese. Quando arrivi in Russia, devi prima di tutto conquistare la fiducia dei compagni. Una volta che te la sei guadagnata, cambia completamente la dinamica delle relazioni: non sei più uno straniero, ma uno di loro. Devi accettare il processo, impegnandoti sin dal primo giorno affinché le cose possano funzionare».
Hai chiuso la tua carriera di giocatore ad Ambrì, nel 2012. Qual è il ricordo più vivo delle due stagioni trascorse in biancoblù?
«Sul piano sportivo, le due salvezze ottenute negli spareggi con Visp e Langenthal, vissute con grande sollievo. Ma ciò che mi ha segnato è stato il tifo che ci spingeva in ogni occasione».
Una retrocessione l’avevi vissuta nel 2005 a Losanna, contro il Basilea. Tu eri però infortunato, messo fuori uso nel turno precedente da una carica del friburghese Jeff Shantz. Nei giorni seguenti all’incidente, un dipendente del Losanna modificò la foto delle tue ferite al volto (già parecchio malconcio), peggiorandole. Poi le inviò alla stampa. Il trucco venne smascherato e quello passò alla storia come il «caso Landry». Ti sei sentito doppiamente vittima?
«Proprio così. È stato l’episodio più brutto della mia esperienza in Svizzera. Ancora oggi provo amarezza. Su tutti i giornali del Paese si parlava di me per il motivo sbagliato. Avevo subito una commozione cerebrale e mi ero rotto il naso, ma ancora oggi il mio nome è associato a un episodio, quello della manipolazione delle foto, di cui non ero responsabile».


Ad Ambrì alleni tuo figlio Manix. Qual è il segreto per far funzionare le cose tra di voi?
«Separiamo la vita personale da quella in pista. Quando è sul ghiaccio, Manix è un giocatore come gli altri. Le mie aspettative nei suoi confronti sono le stesse di Cereda e Matte. Abbiamo già vissuto la stessa cosa a Gatineau, tra noi le cose sono chiare: all’arena è solo lavoro. Ma è bello ritrovarsi a casa a parlare. Una cosa che mi era mancata negli ultimi 3 anni».
Al di là del prestigio sportivo, cosa ha significato per te allenare i Gatineau Olympiques, la squadra junior della tua città?
«Stiamo parlando di una delle più vecchie organizzazioni di hockey giovanile del Québec. Fatte le debite proporzioni, sono i Canadiens della QMJHL. C’erano molte sollecitazioni esterne, molte responsabilità nei confronti della comunità. Dovevo rappresentare al meglio una cultura, una tradizione. Il fatto che Gatineau fosse la mia città natale, ha aggiunto ulteriore pressione. Non volevo deludere la mia gente».
Questa sera giocate a Berna, club con il quale hai sfiorato il titolo nel campionato 2006-07.
«Ci arrivai a metà stagione dal Basilea e in squadra trovai tanti giocatori québécois che già conoscevo: Bordeleau, Gamache, Dubé. Il Davos ci sconfisse in gara-7 della finale, ma oggi a Berna ci torno volentieri».
Un’ultima curiosità: continuerai a giocare nel Blenio in Terza Lega?
«Vorrei ancora allenarmi con loro, ma l’indisponibilità della BiascArena sta complicando le cose. Per giocare, invece, non avrò più tempo. Mi rallegro di aver potuto disputare alcune partite negli ultimi anni. Mi sono fatto tanti nuovi amici e ho ritrovato Alain Demuth, mio vecchio compagno ad Ambrì. Stare in pista con loro mi diverte e mi libera la mente. L’unico momento in cui non penso all’hockey, è quando ci gioco».