Il campo di Holly e Benji sta davvero per finire

Al termine di questo articolo, forse, vi sentirete un po’ tristi. Molto probabilmente verrete travolti dalla nostalgia. Per più generazioni di apprendisti calciatori e sognatori del pallone, Holly e Benji è d’altronde stato un fedele compagno di viaggio. Un porto sicuro, anche, nel quale rifugiarsi ogni pomeriggio, di ritorno da scuola. La miccia capace d’innescare tutto questo, però, potrebbe spegnersi definitivamente. Yoichi Takahashi, creatore e disegnatore del manga da cui prese vita la celebre serie televisiva con protagonista Oliver Hutton, si appresta a dire basta per motivi di salute. E così, sul numero 20 di Captain Tsubasa Magazine atteso il prossimo aprile in Giappone, saranno pubblicati gli ultimi capitoli della saga. Gli ultimi, perlomeno, plasmati dal fumettista che dal 1981 ha contribuito a cambiare la percezione dello sport più popolare al mondo. In Asia, ma non solo. Nella serie oramai al tramonto, Holly e i suoi compagni sono vicini a vincere le Olimpiadi con la nazionale giapponese Under 23. Un ultimo exploit, insomma. Dopo il quale Takahashi si limiterà a fornire i soggetti e a supervisionare eventuali, nuove sceneggiature. Spetterà insomma ad altri autori raccoglierne l’eredità. Con il passo indietro del mangaka 64.enne, la prospettiva di una fine è comunque data. E il momento per riflettere sulla portata di questa storia, e delle sue declinazioni, è a maggior ragione propizio.
E poi arrivò Francia ‘98
Angelo Cavallaro si era portato avanti già nel 2014, dando alle stampe il saggio Holly e Benji: lo spokon che ha rivoluzionato il calcio. Curatore per COMICON e specialista di fumetti, l’italiano ha cercato di misurare la grandezza di un autentico fenomeno editoriale. Uno «spokon» perché così, nella cultura di anime e manga, sono definiti i racconti ambientati nel mondo dello sport. «Holly e Benji, in origine Capitan Tsubasa, è il fumetto, poi cartone animato, più influente della storia» sottolinea quale importante premessa. Per poi chiarire il concetto: «Non esiste, numeri alla mano, un prodotto in grado di impattare così profondamente sullo sviluppo del calcio giocato, e però anche in termini culturali». Il Giappone, grazie alle gesta di Tsubasa Ozora, ha infatti rivisto le proprie abitudini. «Non che il calcio non esistesse prima del 1981 - indica Cavallaro -, basti pensare alla clamorosa medaglia di bronzo ottenuta ai Giochi olimpici del 1968. I progressi compiuti nella disciplina, tuttavia, vanno ricondotti agli anni Ottanta. Proprio per merito della creatura di Yoichi Takahashi». E i calcoli sono presto fatti. «La generazione di calciatori che ha permesso al Giappone di qualificarsi per la prima volta a un Mondiale, nel 1998 in Francia, è cresciuta e si è formata con Holly e Benji». Non solo. «Il valore della serie va soppesato pure in termini sociali. Il manga è stato fondamentale per l’alfabetizzazione di molte scuole nel sud-est asiatico e in Arabia Saudita, dove è stato tradotto a scopo didattico».
«Sconvolgimento epocale»
Angelo Cavallaro ha avuto l’onore di incontrare e intervistare Yoichi Takahashi. «Il cui spessore, nell’universo frenetico e spietato della pubblicazione giapponese, è dimostrato dall’essere riuscito a ritagliarsi uno spazio di rilievo, con i suoi tempi, su un magazine dedicato e non su una rivista periodica. Pochi altri prodotti personalizzati vi sono riusciti, Dragon Ball e One Piece per esempio». Così come non sono molti i casi per i quali sono stati realizzati così tanti rifacimenti a livello di cartoon.


«Yoichi Takahashi - precisa Cavallaro - nasce come giocatore e appassionato di baseball, lo sport più popolare con il sumo. I suoi primi disegni, non a caso, raccontano di baseball. All’inizio degli anni Ottanta capisce tuttavia che serve smarcarsi. E lo fa dopo una sorta di folgorazione avuta con i Mondiali del 1978 in Argentina. In Giappone il football era una disciplina semiprofessionistica, legata unicamente ai circoli universitari. I bambini di allora, detto altrimenti, non conoscevano e non avevano mai visto il calcio. Con l’uscita settimanale di Capitan Tsubasa sulla rivista Weekly Shōnen Jump - contenitore di tante altre saghe, da Dragon Ball a Kenshiro, passando per i Cavalieri dello zodiaco - la situazione cambia. La lettura costante delle avventure di Holly e Benji sfocia in uno sconvolgimento epocale. Oltre al citato accesso ai Mondiali del 1998, a fare stato in Giappone è il netto incremento di persone che praticano il calcio. Da poche a mezzo milione all’inizio degli anni Novanta. Le vicende dei due ragazzini fuoriclasse diventano tema di discussione e soprattutto di emulazione sui campetti di tutto il Paese. Esattamente come avvenuto in seguito in Europa con la serie tv»
Diverso da tutti gli altri
Ecco, a proposito di noi. Del «nostro» Holly e Benji; quello dei campi infiniti, della catapulta infernale e delle telecronache di Sergio Matteucci. Come è stato possibile innamorarsi così follemente di un cartone animato? «Il discorso, in realtà, vale sia per il Giappone, sia per il pubblico europeo. La storia - spiega Cavallaro - s’innesta su un filone che ha il ragazzino come target. Ma rispetto ai precedenti fumetti di carattere sportivo, Capitan Tsubasa costituisce una rivoluzione. Ribalta il paradigma de L’Uomo Tigre, di Tommy e la stella dei Giants, di Mimì e le ragazze della pallavolo, nei quali lo sport era concepito come strumento di nobilitazione e di riscatto per i protagonisti che lo praticavano. Attraverso il sacrificio, allenamenti e prove durissime, attraverso la fatica quindi, era possibile realizzarsi sul piano personale. Il che comportava altresì divenire l’emblema del Giappone, liberandolo dal secondo dopoguerra e la sua miseria». L’idea alla base di Capitan Tsubasa è diametralmente opposta. «Il calcio praticato da Holly, un ragazzino normale, diventa la sublimazione del calcio stesso» evidenzia l’esperto: «Il bambino che legge o vede il divertimento di Oliver Hutton vuole imitarlo. Non tanto riuscendo nei suoi super tiri o nelle sue super rovesciate, ma provando la stessa felicità con un pallone fra i piedi. La straordinarietà di Holly diventa così l’ordinarietà di ogni bambino». Il pallone è il mio migliore amico, già. «Tant’è vero - prosegue Cavallaro - che il grande rivale del protagonista, Mark Lenders, incarna perfettamente il modello di sportivo di successo che andava per la maggiore negli spokon dell’epoca. Perché orfano, povero, e obbligato a fare leva sulla grinta per emergere». Eppure il racconto evolve in modo ambizioso, con un gruppo di ragazzi giapponesi che sogna di vincere il Mondiale e poi le Olimpiadi. «Non bisogna dimenticare - osserva Cavallaro - che quando esce il fumetto, negli anni Ottanta, il Giappone è leader in molti settori economici. Pensare in grande è la normalità. Dopo tutto, se puoi diventare il Paese alla testa del G7 allora anche mettere le mani su una Coppa del Mondo non deve essere un’utopia».
«Soprattutto divertimento»
L’Europa, al contrario, non aveva bisogno di Holly e Benji. «E men che meno il Sudamerica, dove la serie ha pure avuto un grande successo» indica Cavallaro: «Però anche in queste realtà ha contribuito a magnificare il gioco del calcio per quello che è. Amicizia, impegno, vittoria, sconfitta. E, di nuovo, divertimento, soprattutto divertimento. Il tutto, tra l’altro, contagiando tanti bambini poi diventati campioni assoluti. Come Ronaldinho, Zidane, Del Piero, Iniesta e molti altri». Chissà. Alla notizia dell’ultimo numero curato da Yoichi Takahashi, forse, un velo di nostalgia ammanterà anche loro.