Il lungo addio di Filippo «Pippa» Rossi
«Sì, credo che questa sarà la mia ultima corsa». Filippo Rossi, Pippa per gli amici, è sereno. Rilassato, anche. Domenica, affronterà l'ultra-maratona dei suoi sogni: la 20-Year Race in Giordania, attraverso il deserto. «La sognavo da tanti anni» ci dice l'atleta ticinese. «Ma poi, per un motivo o per l'altro, dalla pandemia alla guerra, non c'è mai stato verso di partecipare». La prima volta, dicevamo, verosimilmente sarà anche l'ultima. «Quantomeno con questo formato, cioè 250 chilometri in autosufficienza in ambienti desertici» prosegue il nostro interlocutore. «Dopo dieci anni, avrò la possibilità di chiudere in bellezza. Per poi cercare, complice un po' di stanchezza, nuovi obiettivi».
Domanda banale: qual è il senso di questa gara, al di là dell'addio alle ultra-maratone?
«Mi sono allenato in Giordania, nel deserto, nel 2016. Per quattro mesi. È un posto che ho amato profondamente. Il senso è quello di dare tutto, un'ultima volta, per provare a strappare il cosiddetto risultato. Ma il senso è anche quello di godermi il paesaggio. Di divertirmi».
Divertimento sarà la parola-chiave del Filippo Rossi post ultra-maratone?
«Sì. Diciamo che, tendenzialmente, non escluderò a priori di fare altre ultra-maratone. Ma l'idea, appunto, è quella di chiudere con questa lunga parentesi della mia vita sportiva. Proprio perché iniziava a pesarmi la competizione pura. Vorrei divertirmi, certo, o quantomeno affrontare la corsa con il sorriso e non solo per sfidare me stesso e gli avversari».
È scattato qualcosa o l'addio, diciamo, è legato a questioni come l'età e il passare del tempo?
«Ho notato che anche in questo mondo, nel mio mondo, ci sono schifezze come doping e altro. Questo, quindi, è un aspetto da considerare. Poi, è vero, non sono più di primo pelo. Non avendo mai fatto il professionista e non avendo mai ricevuto soldi per correre, al di là degli sponsor, che ringrazio, ho sacrificato parecchio del mio privato per arrivare dove sono arrivato. Quando, però, costruisci una famiglia ti rendi conto che i sacrifici richiesti da uno sport come il mio tolgono davvero troppo tempo e spazio agli affetti. Riassumendo, mi ero stufato. Anche di mantenere un certo rigore alimentare. Ora vorrei soltanto vivere in maniera più tranquilla e serena la mia vita. Sportiva e non. Continuerò a correre, ne sono sicuro, ma senza questa brama di spaccare il mondo».
Se Filippo Rossi si guarda indietro, che cosa vede?
«Vedo buoni risultati. Sono contento di com'è andata, eccome. Adesso cercherò di chiudere in bellezza, in Giordania, per poi uscire dal mondo delle ultra-maratone. L'obiettivo è uscirne felice».
Queste gare spingono gli atleti al limite, se non perfino oltre. Nei momenti più complicati e bui che cosa suggerivano corpo e mente?
«Le ultra-maratone mi hanno insegnato tanto. Anche a livello professionale. Mi hanno fatto crescere, dandomi una spinta e una carica incredibili. E questo perché, sostanzialmente, mi hanno permesso di capire meglio quali sono i miei limiti. E le mie debolezze. Nelle difficoltà, inevitabili quando devi cavartela da solo per 250 chilometri, ho sempre mantenuto una grande lucidità. E ho sempre tirato fuori il meglio. Come l'anno scorso, nel deserto del Gobi, quando sembrava davvero finita. Ero sul punto di ritirarmi, poi – grazie anche all'intervento della squadra medica – mi sono rimesso a correre e ho tirato fuori un risultato pazzesco. In quei momenti, il Filippo che vive dentro di me mi invitava a non mollare. E questa cosa di non mollare è un po' il riassunto della mia vita. Anche lontano dalle gare. Ho ottenuto quello che volevo, ma l'ho ottenuto lottando. Combattendo».
Gare che hanno pure una componente, come detto, paesaggistica se così vogliamo definirla.
«La corsa, per me, è stata arricchente anche a livello culturale, indubbiamente. Sono stato in luoghi che, altrimenti, difficilmente avrei visitato. E ho conosciuto persone che mi sono rimaste dentro. Quando corri per così tanti chilometri hai pure il tempo per fermarti e apprezzare ciò che ti circonda. A cominciare dalla gente. Non parliamo di gare mordi e fuggi, insomma. Un discorso, questo, che vale pure per le gare che ho fatto alle nostre latitudini. C'è sempre un sentiero o qualcosa che non conosci, perfino dietro casa tua».
Quindi, per capirci, è meglio vincere o scoprire qualcosa di nuovo?
«Il risultato non è tutto. C'è l'aspetto agonistico, c'è stato perlomeno. Non lo nego. Ma se faccio un bilancio di questi dieci anni di ultra-maratone dico che il contatto con il contorno è stato altrettanto stimolante».
Quanti chilometri ha percorso, in carriera, Filippo Rossi?
«Mah, a spanne parecchi. Anche se c'è chi ha corso di più. Però negli anni buoni viaggiavo a una media di 3-4 mila chilometri all'anno».
Siamo ai saluti. E ai ringraziamenti.
«Ringrazio, banalmente, chi mi ha sostenuto. Nonostante il mio sia uno sport di nicchia, ho sempre avuto un sacco di tifosi ad accompagnarmi. Il che mi porta a una riflessione finale, se posso».
Prego...
«Non sono un super-campione. E le ultra-maratone non sono il calcio o l'hockey. Credo, però, che sia importante parlare anche delle cosiddette discipline minori. A maggior ragione se, penso alle SkyRace, in Ticino abbiamo due fenomeni come Roberto Delorenzi ed Elhousine Elazzaoui. Ottengono risultati pazzeschi a livello internazionale, eppure sembra quasi che non esistano. Lo trovo assurdo. Meriterebbero un po' di spazio».