Parigi 2024

Il medico: «Io, nella Senna, non mi tufferei»

Marco Marano, responsabile medico delle squadre di calcio e hockey del Lugano, sta vivendo il suo sogno olimpico - Lo abbiamo contattato per farcelo raccontare
© KEYSTONE/ Laurent Gillieron
06.08.2024 06:00

A tenere alta la bandiera rossocrociata alle Olimpiadi è anche Marco Marano. Specialista in Ortopedia, Traumatologia e Medicina dello Sport all’Ars Medica – ma anche responsabile medico delle squadre di hockey e calcio del Lugano – è infatti l’unico rappresentante svizzero in campo sanitario. Al giro di boa dei Giochi, lo abbiamo raggiunto per farci raccontare la sua esperienza olimpica.

Marco, hai appena approfittato di un giorno libero. Lo hai dedicato al relax o a qualche gara?
«Sono andato a vedere la semifinale tra Spagna e Marocco. Una partita di calcio anche qui devo vederla (ride, ndr.). La squadra africana è una delle rivelazioni di questa edizione e mi incuriosiva. Inoltre, potrò prendere in giro El Wafi (giocatore dell’FC Lugano, ndr.), che non ha potuto partecipare».

E quando sei stato di turno al policlinico è stato possibile seguire una o più discipline?
«Trovare i biglietti è stato difficile, ma sono comunque riuscito a vedere alcune partite di pallavolo, pallanuoto, tennis e anche alcune gare di nuoto. Da ex giocatore di pallavolo, direi che l’evento fin qui che più mi è piaciuto è stato un match della nazionale italiana. Inoltre, ero seduto in prima fila dietro la panchina».

Raccontaci invece del tuo ruolo in ambito medico.
«Lavoro nel policlinico di Saint-Denis. È una struttura presente in tutti i villaggi olimpici ed è come un «mini ospedale», e serve per supportare gli atleti. Pensa che nelle tre settimane della mia permanenza, passeranno nel villaggio 14.500 persone. Il mio ruolo è quindi quello di medico dello sport, fondamentalmente quello che faccio già a Lugano. Gli atleti che subiscono un infortunio, vengono indirizzati da noi».

Ti è già capitato di dover lavorare con un grande atleta?
«C’è da dire che le «superstar», come Djokovic, non restano all’interno del villaggio. Ma ho avuto modo di trattare atleti che sarebbero stati tra i favoriti per vincere le medaglie. Per esempio, lunedì ho seguito l’atleta spagnola di badminton Carolina Marin, ritiratasi dalla semifinale per un brutto infortunio al ginocchio. Era largamente in vantaggio nel punteggio e la candidata numero uno per l’oro. La cosa più brutta nel mio ruolo è proprio quella di dover comunicare a un atleta che non potrà più partecipare a una gara, per la quale probabilmente si sta allenando da tre-quattro anni».

E come la vivi in questi casi?
«Nonostante io sia allenato, perché vedo spesso atleti di livello, le prime volte ero molto emotivo. Gli sportivi che sono qui, però, spesso prendono parte alla gara della vita, e un acciacco fisico un paio di giorni prima può distruggere i loro sogni. E non è facile trovare le parole giuste per dare loro una brutta notizia».

Sui social hai postato alcuni selfie che sei riuscito a strappare a qualche celebrità. Qual è il tuo preferito?
«L’incontro con Federica Pellegrini è stato bellissimo. Sono cresciuto guardando le Olimpiadi, e trovo che lei sia una delle atlete più forti della storia del nuoto. Con me si è dimostrata molto gentile e disponibile. Un altro selfie che adoro, e che però non ho pubblicato sui social, è quello con la squadra francese di rugby a 7. Li ho incontrati il mattino dopo che hanno vinto l’oro, probabilmente senza neanche un minuto di sonno alle spalle».

E l’incontro più curioso che ti è capitato?
«Ho legato molto con diversi atleti egiziani. Mi hanno anche invitato a visitare la loro struttura nel villaggio. Sono dei ragazzi molto simpatici e…festaioli».

Mentre una persona che speri ti capiti di dover assistere?
«Aiutare un membro del «Dream Team», la squadra degli USA di basket, sarebbe il sogno, nonché l’apice della mia carriera da medico dello sport».

Tornerò in Ticino arricchito sia dal punto di vista professionale, sia umano

Dai racconti del villaggio olimpico emergono spesso storie legate a feste, musica e altro. Ma un atleta non dovrebbe mantenere uno stile di vita più consono alle prestazioni sportive?
«Dalla mia esperienza, posso riconoscere due categorie di atleti. Per alcuni, già essere ai Giochi è un successo. Di riflesso, vivono effettivamente la loro permanenza qui come una festa: li puoi incrociare per le strade mentre si esibiscono in balli e hanno la musica nelle casse. Ma poi ci sono anche coloro che sono qui per vincere, e fino al momento della gara sono difficilmente rintracciabili perché vivono tra camera e palestra. Aggiungo che in passato gli atleti potevano rimanere nel villaggio fino al termine, e gli ultimi giorni dei Giochi si trasformavano in una festa continua. Adesso però sono tenuti a uscire entro due giorni dalla fine della loro ultima prestazione».

Sono emerse diverse lamentele da parte degli atleti per le condizioni del villaggio. Voi, figure mediche, alloggiate al suo interno?
«No. E per fortuna, mi viene da dire. Da quel che mi hanno raccontato i pazienti, posso confermare quel che si dice riguardo ai letti scomodi e ad un’organizzazione in generale non impeccabile. Tant’è vero che diversi atleti hanno preferito recarsi altrove per dormire».

E il cibo?
«Il cibo che mangiamo è invece lo stesso degli atleti. Non è mia intenzione sputare nel piatto in cui mangio – letteralmente – ma effettivamente, la qualità non è delle migliori. Anche i tempi di attesa sono lunghi a volte. Ma questi aspetti possono sicuramente disturbare più uno sportivo, che me. Tutto quello che sto vivendo qua è un sogno, e lo vivo come un bambino che ammira il mondo con gli occhi spalancati».

Quindi è valsa la pena aver affrontato la lunga selezione per poter essere qui.
«Assolutamente sì. Quando è uscito il bando di concorso, mi sono candidato senza troppe speranze. Un anno più tardi, quando ho ricevuto la bella notizia, inizialmente pensavo fosse uno scherzo. So che molti colleghi ci avevano provato negli anni, ma nessuno era mai riuscito ad entrare. Poter portare il nome del Lugano, calcio e hockey, in mezzo a questi super dottori è anche per me un orgoglio. E poi, in fondo, siamo tutti collegati: ho conosciuto un medico che ha curato Amoura (ex calciatore dell’FCL, ndr.) in Belgio. Poter entrare in contatto con tutti loro è fantastico».

E anche arricchente, immaginiamo.
«Senza dubbio. Tutti i giorni, anche solo confrontarsi con i medici che accompagnano le varie delegazioni, ti insegna molto. E lo staff selezionato è di prim’ordine. Sicuramente tornerò in Ticino arricchito, sia dal punto professionale sia umano, e proverò a portare ciò che sto imparando nel mio quotidiano».

Chiudiamo con un paio di domande più tecniche. L’atleta italiano Gianmarco Tamberi è attualmente a rischio per un possibile calcolo renale. Pensi che abbia delle chance di gareggiare domani? Se sì, in che condizioni?
«Ho imparato che gli atleti iscritti, anche se infortunati vogliono partecipare lo stesso. Penso che Gimbo farà lo stesso. I calcoli renali sono però molto debilitanti, non avrà probabilmente le energie e la forma fisica per poter reggere tutti i salti previsti per le qualificazioni e le finali. Io però spero per lui, perché ho il biglietto per le finali di atletica di sabato sera».

Anche se non è il tuo campo d’azione primario, cosa ne pensi riguardo ai pericoli di gareggiare nelle acque della Senna?
«Poche ore fa un’atleta belga (Claire Michel, ndr.) è stata ricoverata a causa di un’infezione proveniente dal batterio Escherichia coli. Ce lo si poteva aspettare. Noi siamo molto vicini alla Senna, e sia alla vista sia all’olfatto, si capisce quanto le acque siano sporche. Purtroppo, le decisioni non sono state prese pensando in primo luogo alla salute degli atleti. No, non userò di certo il mio giorno libero per farmi un tuffo lì dentro (altra risata, ndr.)».

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