Ciclismo

Il mito di Marco Pantani vent’anni dopo

Il giorno di San Valentino del 2004 se ne andava il Pirata, uno dei più amati campioni di tutti i tempi
Stefano Olivari
14.02.2024 06:00

Il giorno di San Valentino del 2004 se ne andava Marco Pantani, a 34 anni di età, per overdose di cocaina. Uno dei più amati campioni di tutti i tempi, l’incarnazione dell’eroe sfortunato ben prima della morte, per una quantità incredibile di incidenti e situazioni strane. Milioni di appassionati, non soltanto italiani, hanno smesso di seguire il ciclismo proprio vent’anni fa e non perché non ci siano stati nel frattempo altri grandi scalatori, italiani e non. Ma al di là dello sport che cosa rimane dell’icona pop e dell’uomo Pantani?

Le vittorie e la sfortuna

Pantani è stato un mito anche da vivo, non avrebbe avuto bisogno della morte in giovane età secondo il teorema di Gianni Brera, preso pari pari da Menandro: «Muore giovane chi è caro agli dei». Lo è stato perché è arrivato come un UFO in quel ciclismo troppo rispettoso delle gerarchie, per non dire mafiosetto, ed in quei pochi anni in cui è stato Pantani ha vinto o comunque ci ha provato nel modo in cui tutti sognano di vincere. Senza furbizia, senza tattica, senza nemmeno una preparazione scientifica al di là della durezza degli allenamenti. Pantani i suoi scatti li annunciava, dopo avere gettato la bandana (da cui il soprannome di Pirata, che gli piaceva a giorni alterni) a terra in segno di sfida. Il suo era il ciclismo antico di Coppi e Bartali, ma senza rivalità: non c’è mai stato un anti-Pantani, non erano tali nemmeno i corridori che lo battevano, da Indurain ad Armstrong. Insomma, in senso wikipedistico Pantani ha vinto tanto (Giro d’Italia, con la memorabile cronometro Mendrisio-Lugano in cui incredibilmente arrivò terzo, e Tour de France nel 1998 su tutto, senza contare i tanti piazzamenti di prestigio) ma non tantissimo, limitato dalla sfortuna, dalle tante rovinose cadute, come quella alla Milano-Torno del 1995 per colpa dell’organizzazione, e da altre situazioni: in carriera, lui corridore da corse a tappe, soltanto 4 volte è riuscito a concludere il Giro d’Italia e 4 il Tour.

Un eroe in musica

Nell’immaginario collettivo si entra non soltanto per le vittorie, ma anche per la capacità di entrare in sintonia con chi le vive da spettatore: per questo gli albi d’oro sono pieni di campioni dimenticati, che non hanno lasciato niente. Non è il caso di Pantani. I lunghi periodi di depressione, la difficoltà nel gestire sia successi sia insuccessi, ad un certo punto anche una vita privata fuori controllo fecero di Pantani l’eroe imperfetto, quello pieno di dubbi. Per questo è stato protagonista di tanti libri, alcuni davvero brutti e complottisti al massimo grado, di fiction televisive (la più famosa Il Pirata, dove viene interpretato da Rolando Ravello) e di innumerevoli canzoni. Dagli Stadio (E mi alzo sui pedali) a Venditti (Tradimento e perdono), dai Litfiba (Prendi in mano i tuoi anni) a Baccini (In fuga), dai Nomadi (L’utima salita) a Claudio Lolli (Le rose di Pantani) ad altri gli esempi sono innumerevoli: nessun capolavoro e a dirla tutta anche poche canzoni ascoltabili, ma è significativo che nessun campione italiano di nessuno sport abbia goduto del rispetto unanime di Pantani, anche se di fatto la parte migliore della sua carriera si è chiusa per doping.

Il doping

Ecco, il doping. La parola che non si può pronunciare se non si vuole litigare con i pantaniani osservanti. Che tecnicamente hanno comunque ragione: a Madonna di Campiglio, il 5 giugno 1999, prima della partenza della penultima tappa di un Giro d’Italia che stava dominando, risultò che il suo ematocrito era del 51,8%, dello 0,8% superiore al consentito (il limite era il 50% con 1 come margine di tolleranza). Troppi globuli rossi. Ma ufficialmente non doping: infatti Pantani fui sospeso per 15 giorni ma non processato e tantomeno squalificato. Inutile però giocare con le parole: tutti i grandi, ed anche i meno grandi, del ciclismo anni Novanta e anni Zero, erano sospettati di fare uso di doping, soprattutto EPO. E Pantani correva e vinceva in quel contesto storico, con tutto quel che ne consegue, al di là poi di tante testimonianze che avrebbero confermato l’ovvio. La chiave per capire quel ciclismo risiede proprio nei controlli, centrati sul non superamento di certi parametri (quali appunto l’ematocrito) più che sul rilevamento di particolari sostanze. In pratica ci si poteva dopare, ma soltanto fino a un certo punto. Di sicuro dopo Campiglio Pantani sarebbe crollato emotivamente, ritenendosi vittima di un complotto e pensando, a ragione, che il gruppo avesse scelto un capro espiatorio per i propri peccati. Il gigantesco non detto della vicenda è che Pantani era l’idolo della gente ma non di tanti suoi colleghi, oscurati mediaticamente da questo ragazzo che sembrava venire da un altro mondo, e meno che mai delle squadre avversarie oscurate da un fenomeno troppo grande. Il ciclismo era Pantani. Poi ogni dietrologia ha trovato qualche appiglio, anche quello delle scommesse della camorra che non voleva essere sbancata dalla vittoria di Pantani al Giro: è la teoria di Renato Vallanzasca, dopo aver raccolto voci in carcere, e sta in piedi più di altre. Pantani usava gli stessi ‘aiuti’ degli altri, ma in quell’occasione fu quasi certamente incastrato. Dietrologia a valanga anche sulla morte, in un residence di Rimini, ma purtroppo poco cambia il sapere chi gli diede la droga o chi vide prima di morire. Una morte straziante, in una situazione alla Maradona.

Dipendenza e depressione

Di sicuro l’uso di cocaina era iniziato nel periodo di totale inattività dopo Campiglio. Pantani avrebbe però avuto altre fiammate negli anni successivi, di pura classe e allenandosi pochissimo. Fece quasi da gregario a Stefano Garzelli al Giro del 2000 e vinse due tappe al Tour, staccando anche Armstrong, ma lo sguardo si era ormai spento. Non era più lui, ma un uomo che odiava il ciclismo e al tempo stesso non sapeva staccarsene. Infatti quando Pantani è morto non si era ancora ritirato, anzi nel 2003 aveva dato qualche segnale incoraggiante in mezzo a processi e permanenze in clinica per curare dipendenze e depressione. Intanto si era separato dalla fidanzata storica, Christina Jonsson, dopo sette anni in cui lei aveva vissuto tutti i suoi alti e bassi, lavorando anche nella piadineria di famiglia a Cesenatico. Lei era l’unica persona del suo entourage a non interessarsi di ciclismo e proprio per questo fu la sua salvezza nei momenti peggiori, almeno fino all’arrivo della cocaina. La allora ragazza danese, cubista in una discoteca di Cesenatico, aveva conosciuto Pantani dopo la caduta nella Milano-Torino, quando sembrava dovesse smettere con il ciclismo, ed era stato subito grande amore. Finito a causa di chi stava intorno al campione, famiglia d’origine compresa, e soprattutto per la cocaina ormai diventata ingestibile. In seguito Christina avrebbe viaggiato molto ed insegnato alla Tètard, scuola d’arte di Losanna. Per anni ogni 14 febbraio ha organizzato una mostra in onore di Pantani. Vivo per lei ma anche per noi che a suo tempo lo abbiamo intervistato dopo tante cadute, reali e metaforiche. Sempre gentile ed educato, anche quando era una divinità. Ci faceva piangere e ci fa piangere.