Il principe della terra rossa che non è mai diventato re
Anche nel suo ultimo match ha dato davvero tutto, com’era sempre solito fare. Avrebbe meritato di più, contro Darderi, così come avrebbe meritato di più in carriera. L’ultima partita di Dominic Thiem è stata semplicemente emblematica. Emblematica perché - al di là del risultato – il pubblico lo ha costantemente sostenuto, riconoscendogli una volta di più impegno e dedizione assoluta. Emblematica perché la sua ultima versione di sé non era quella originale, ma solamente una copia sbiadita del campionissimo che fu.
Tremendamente genuino
È giusto così, in sostanza. A soli 31 anni, nella sua Vienna, il tennista austriaco ha letteralmente appeso la racchetta al chiodo, riponendo il suo attrezzo di lavoro su una struttura creata ad hoc per l’occasione. Una cerimonia d’onore nei suoi confronti, a dire il vero, c’era già stata domenica. Il pubblico accorso martedì sera nella gremitissima Wiener Stadthalle, tuttavia, voleva vedere per l’ultima volta le prodezze del proprio pupillo in una competizione ufficiale. Qualche sprazzo del suo tennis più vintage si è visto, con diversi vincenti rovesci lungolinea – il suo marchio di fabbrica – che hanno mandato tutti in visibilio. Nel complesso, però, non era più lui e lui stesso ne era pienamente consapevole. «Il mio ultimo incontro ha confermato che ritirarmi è stata la decisione giusta – ha affermato con grande sincerità – e ora sento una sorta di vuoto. Da una parte percepisco una certa tristezza, dall’altra provo un forte senso di sollievo. Vorrei essere ricordato come un giocatore corretto e gentile, ma anche come qualcuno di divertente da guardar giocare. Soprattutto, poi, vorrei essere stato un’ispirazione per molti bambini».
Si è appena ritirato, eppure, si può già affermare con convinzione che così è stato e il suo obiettivo l’ha pienamente centrato. Come è stato il caso per il frattellino di Alcaraz, Jaime, tanti altri giovani lo hanno preso come modello, anche se molto difficile da replicare. Thiem aveva tutto: una straordinaria potenza da entrambi i lati del campo, una prima di servizio forte e precisa ma anche una seconda estremamente arrotata e insidiosa. Il tutto, poi, corroborato da una straripante condizione atletica e - nel picco dei suoi anni - persino un buon tocco nei pressi della rete. Ognuno dei suoi colleghi, in questi giorni, gli ha reso omaggio ricordando con piacere quello stesso fairplay che lui ha sempre inseguito. Ci sono atleti che passano un po’ in sordina, altri che sono personaggi controversi e poi ci sono le eccezioni come la sua. Era amato di chiunque, «Domi» e odiato da nessuno.
«Era solo un’illusione»
L’inizio della fine, incredibilmente, è stato l’apice della sua carriera. Il perenne inseguimento di un successo Slam, poi concretizzatosi, si è presto trasformato in un incubo e l’austriaco, da quel vortice negativo, non ci è di fatto mai uscito. Con lo storico trionfo agli US Open del 2020, il roccioso campione che sfidava e batteva le leggende si è scoperto più fragile che mai. «Pensavo che quella vittoria mi avrebbe cambiato la vita e mi avrebbe reso felice per sempre. La verità, tuttavia, è che non è cambiato nulla, era solo un’illusione. Dopo New York tutti si aspettavano che avrei potuto giocare in maniera libera e continuare a vincere. Invece, il raggiungimento di un obiettivo così grande, il mio obiettivo numero uno, mi ha levato quella pressione che necessitavo quando scendevo in campo».
Il coronamento del suo sogno lo ha prima spento mentalmente e poi lo ha spezzato fisicamente, quando nel 2021 il suo polso destro ha fatto «crack». Da lì in poi si è vista solo la sua brutta copia, depotenziata. Il peso dei suoi colpi non era più lontanamente paragonabile e così quel successo che lo ha «maledetto» è rimasto l’ultimo titolo conquistato.
Un quinquennio spettacolare
Ne ha vinti 17 di trofei, potevano essere ben di più. Dovevano, forse. Paradossalmente, i successi più importanti – raccolti a Flushing Meadows e al Masters 1000 di Indian Wells – sono arrivati sul cemento e non sulla sua superfice preferita, ovverosia la terra battuta. Era lì che dava il meglio di sé, era lì che riusciva a sprigionare appieno le sue brutali rotazioni e accelerazioni. A un punto tale che ad oggi vien da sorridere, sì, perché doveva essere Thiem l’erede di Nadal. La pesante corona che avrebbe lasciato il maiorchino, si pensava, verrà indossata – seppur con un dominio meno vistoso – dall’austriaco. Ebbene, non solo il principe della terra rossa non è mai diventato re, ma ha abdicato addirittura prima dello spagnolo, che saluterà le competizioni a novembre.
I numeri, però, non mentono. Alcuni, forse, riescono a mascherare la verità, mentre altri la mettono a nudo. E se è vero che Thiem non ha mai vinto il Roland Garros, è altrettanto veritiero il fatto che è stato l’unico al pari di Djokovic a sconfiggere Rafa almeno 4 volte sulla terra. Non solo, ha battuto i cosiddetti «Big Three» per ben 16 volte e – assieme a Murray – è stato l’unico capace di imporsi almeno 5 volte contro ognuno di essi. Sua Maestà Roger Federer, per dire, si è dovuto inchinare dinanzi all’austriaco su erba, terra e cemento - sia outdoor sia indoor – una rarità altrimenti accaduta solamente al cospetto degli stessi Nadal e Djokovic. Insomma, chi ha potuto ammirare lo show del tennis tra il 2016 e il 2020 sa che Dominic Thiem non era un timido comprimario, ma uno straordinario protagonista.