Jean Alesi: «Schumi? La vita talvolta è crudele, ma spero sempre in un miracolo»

Sono trascorsi dieci anni dal giorno che cambiò per sempre la vita di Michael Schumacher, uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi. A Méribel, in Francia, il campione di Formula 1 subì un terribile incidente sugli sci. In questa intervista, Jean Alesi ripercorre le tappe che ha condiviso con l’amico-rivale «Schumi».
La foto di Jean Alesi a cavallo della Benetton di Michael Schumacher, nel giro di rientro del Gran Premio del Canada 1995 appena vinto, è l’immagine emblematica di una carriera. Alesi «passeggero» di Schumi pochi mesi prima che Michael gli rubasse il posto in Ferrari, cedendogli il sedile della Benetton. Solo uno dei tanti intrecci di due vite che si sono spesso sovrapposte per ragioni assolutamente casuali quanto curiose. Alesi, ad esempio, ha corso per due anni con la Sauber, la scuderia svizzera con la quale Schumacher aveva gareggiato nei Prototipi, accedendo al mondo delle grandi competizioni. Poi Michael debuttò in Formula 1 con la Jordan, il team col quale Jean ha chiuso la carriera. Ma le coincidenze non finiscono qui, ce ne sono altre, tante.
Alesi, che cosa prova oggi pensando a Michael Schumacher?
«Da un lato avverto uno sgomento che mi spiazza. Io qui, in piena forma, che mi occupo delle mie cose e seguo ancora i Gran Premi, in pista o in televisione. Lui in qualche dimensione misteriosa che vive un’altra vita, molto diversa. Che cosa penserà? Che immagini avrà davanti nello stesso istante in cui noi stiamo parlando? Gli saranno tornati in mente certi attimi della sua carriera? Chissà. Io mi auguro solo che si senta bene, che sia tranquillo. Ecco, voglio pensarlo così, mandandogli affetto».
Quando è stato il primo incontro tra voi?
«Al suo debutto a Spa, in Belgio, nel 1991. Io correvo con la Ferrari, era il mio primo anno a Maranello, lui era stato appena ingaggiato dalla Jordan, con la quale avevo vinto il titolo in Formula 3000. Era giovedì sera, prima delle prove che si sarebbero tenute il giorno dopo: entrai al ristorante dell’hotel e trovai Eddie Jordan che mi trascinò al suo tavolo dove c’era un ragazzo teso, con una smorfia apprensiva. Ci presentò ed Eddie disse subito: ‘‘Ecco, adesso spiegagli un po’ com’è la pista di Spa e che cosa è la Formula 1’’. Michael ascoltò quello che gli dicevo, lo vidi freddo, forse per la tensione».
Però vi siete frequentati...
«Sì. E lui pian piano si sciolse. Io abitavo ad Avignone, lui aveva acquistato una casa a Saint-Paul de Vence, nel sud della Francia, non lontano da me. Ci furono occasioni per allenarci insieme, qualche cena con la famiglia».


Nel 1996 Schumacher dopo due titoli lasciò la Benetton per la Ferrari: vi invertiste i ruoli.
«Io ero convinto, come Berger che passò con me alla marca di Treviso, di vincere tanto. La squadra era forte, c’era tutto per farlo. Ma dopo un paio di gare capii di aver sbagliato tutto: i migliori tecnici, da Ross Brawn a Rory Byrne agli elettronici, emigrarono alla Ferrari e la Benetton perse immediatamente competitività, anche se io poi vinsi a Montréal».
Che cosa le disse Michael dopo averle offerto quel famoso «passaggio» per rientrare ai box?
«Ero rimasto senza benzina dopo il traguardo, lui mi recuperò e mi fece i complimenti. Ma sono sicuro che avrebbe voluto vincere lui…».
Tanti Gran Premi da avversari, che cosa ricorda?
«La gara al Nuerburgring del 1995, quando mi superò a due giri dalla fine. Io era partito con le slick sulla pista umida che immaginavo si sarebbe asciugata, gli altri con gomme da bagnato. Accumulai quasi un minuto di vantaggio, mi sentivo la vittoria in tasca. Ma Schumacher nel finale si fermò per montare gomme nuove da asciutto e mi superò alla chicane andando a trionfare. Ci rimasi male, così come mi restò l’amaro in bocca quando, l’anno dopo, a Monza, lui con la Ferrari e io con la Benetton, mi scavalcò al pit stop, dopo che ero rimasto a lungo al comando».
Che cosa ammirava in lui?
«Più che ammirato, io l’ho rispettato: sono due cose diverse. Lavorava più degli altri, aveva la capacità di imporre i suoi uomini dentro la squadra, al suo servizio. Arrivò in Ferrari e fece fuori, dopo qualche mese, John Barnard, che era il progettista e direttore tecnico, per creare spazio a tutti gli ingegneri che volle con sé, strappandoli alla Benetton. Io e Berger, in Ferrari, abbiamo avuto un decimo delle forze di cui ha potuto disporre Michael. Come pilota era fortissimo, tenace, impegnato, non regalava nulla: i suoi risultati lasciano a bocca aperta».
Poi, da «ex», vi siete ritrovati di nuovo sulle piste…
«Ah sì, e mi viene da ridere. Accadde sui circuitini di kart: lui padre di Mick, io padre di Giuliano. Due figli rivali, così come eravamo stati rivali noi, incredibile!».
Come venne a conoscenza dell’incidente di Schumacher sugli sci?
«Ero in vacanza a Sestriere e mi chiamò mia mamma dicendomi che aveva sentito alla radio che Michael si era fatto male ed era finito in ospedale a Grenoble. Pensai a una gamba rotta o qualcosa del genere. Infatti gli mandai subito un messaggino scherzoso. Gli scrissi che, se lo desiderava, avrei potuto fargli da interprete, visto che lui non parlava una sola parola di francese. Non ci fu risposta. Capii che non stava bene e poi ne ebbi la conferma. Presi la macchina, andai a trovarlo in ospedale».
Lo vide, quindi?
«Sì, era in coma. C’erano tanti pareri contrastanti su come e quale sarebbe stato il decorso. Non era ovviamente una situazione facile, serviva del tempo per capire. Mi limitai ad abbracciare sua moglie Corinna».
E poi?
«Poi ho ritrovato suo figlio Mick in pista con i kart. Non gli ho mai chiesto nulla di suo padre. In certi frangenti bisogna avere la forza di trattenersi, rispettare il dolore degli altri».
Che cosa pensa, adesso, a dieci anni di distanza?
«Penso che la vita talvolta è crudele. Non conosciamo il nostro destino, non sappiamo che cosa ci accadrà domani. Ma siccome la vita continua, io per Michael spero sempre in un miracolo».
Il silenzio carico d’amore: «È con noi, però in modo differente»
Sono trascorsi dieci anni ed è come se il tempo si fosse fermato. Come sta oggi Michael Schumacher? È la domanda ricorrente che ci si sente rivolgere al bar, dagli amici, ovunque. Perché Michael c’è, ma nessuno ha più avuto notizie dal giorno del maledetto incidente sugli sci, a 23 km all’ora, il 29 dicembre 2013. Nel frattempo sono circolati filmati, qualcuno ha spacciato per scoop informazioni banali (l’ultima inchiesta di una Tv tedesca si chiede perché nessuno, sulle prime, si fosse accorto della sua gravità: gran scoperta…) e c’è persino chi ha tentato di vendere presunte fotografie di lui in meditazione dinanzi a un prato verde. Immagini vere, false, inesistenti o create dall’intelligenza artificiale con la quale un settimanale aveva generato e pubblicato una sua intervista. Uno scandalo. Attorno a Michael aleggia innegabilmente un misto di curiosità morbosa ma anche di affetto, perché mancano il suo volto sorridente e il suo mento pronunciato e si vorrebbe ricevere una nota di speranza, uno spiraglio di luce. Quella luce che lui vede ogni giorno nella sua casa di Gland, prima di sottoporsi alle terapie rieducative. Michael guarda le cose, le persone, il suo cane, per un istante forse intuisce, poi il fotogramma lo abbandona e non gli permette di riannodare i fili del pensiero, della comprensione, della vita.
Schumacher è circondato dall’amore della moglie Corinna (54 anni), dei figli Gina-Maria (26 anni, campionessa ippica di monta western) e Mick (24 anni, pilota in attesa di rientro in F1): l’atmosfera ovattata dei sentimenti più cari l’aiuta a stare meglio, in uno scambio di affetti reciproci, silenziosi.
«È con noi, però in modo differente», ha dichiarato la moglie. Una forma più difficile da accettare all’esterno che nell’ambito di un percorso nel quale Michael si è elevato dalle piccolezze dell’esistenza per entrare in una dimensione mistica, di libertà interiore al riparo delle inquietudini e degli affanni. Diversa, illeggibile, ma pur sempre vita.