Calcio

Kasami è tornato: «In Nazionale giocano i più forti, perché non dovrei farne parte?»

Il centrocampista è diventato uno dei leader della Sampdoria di Andrea Pirlo - In una lunga intervista al CdT il 31.enne racconta la sua esperienza in blucerchiato e il suo rapporto difficile con la maglia rossocrociata
Pajtim Kasami, 31 anni, è fra il leader della Sampdoria di Andrea Pirlo. © REUTERS/Gabriele Siri
Massimo Solari
05.04.2024 06:00

Fa parte della cosiddetta «generazione d’oro» del calcio svizzero. Quella, per intenderci, che nel 2009 portò la Nazionale Under 17 a conquistare la Coppa del Mondo. Dopo tante esperienze forti, oggi Pajtim Kasami è un pilastro della Sampdoria, nobile decaduta in Serie B che - dopo un periodo di crisi - è tornata a flirtare con i playoff promozione. L’intervista parte proprio dai blucerchiati. «Pato», però, ha voglia di parlare anche di tanto altro.

Allora Pajtim, la Sampdoria ha ripreso a volare, alimentando la rincorsa alla Serie A. E dire che a metà campionato rischiavate addirittura grosso...

«La consistenza della squadra, nelle ultime settimane, è cambiata. Troppe volte durante la stagione abbiamo dovuto fare fronte a diverse assenze di peso. La risposta, dunque, è molto semplice: togliete al Parma o al Como cinque titolari e vediamo se sono in grado di fare comunque così bene. Insomma, la Samp era stata costruita in un modo, ma sovente ha giocato in emergenza. Ora, però, le cose vanno meglio. E il merito è di tutte le parti in causa: staff, mister Pirlo e giocatori. Sì, abbiamo finalmente trovato un buon equilibrio. Il che è fondamentale in un campionato duro come la Serie B».

Anche Genova è e potrà essere un fattore decisivo per il prosieguo della stagione. Che cosa significa giocare in questa piazza, con la maglia di uno dei club più importanti della storia del calcio italiano?

«È vero, la maglia della Sampdoria è molto pesante. E non è fatta per tutti. Qui il calcio è vissuto visceralmente, 24 ore su 24, sette giorni alla settimana. Il club è reduce da alcuni anni complicati e, ovviamente, ora le aspettative sono elevate. Il ritorno in Serie A, detto altrimenti, non è un’opzione. È un dovere. In quanto giocatore di esperienza, avverto pienamente questa responsabilità. E, appunto, il peso della storia. Ho avuto modo di conoscere altri ambienti caldi, ma l’aria che si respira al Luigi Ferraris è unica. La Sampdoria supera i 18 mila abbonati. E, per intenderci, un seguito simile lo ha la Fiorentina in Serie A».

Oggi sei un leader della squadra. Non era scontato. Sei arrivato a Genova a mercato estivo chiuso, da svincolato e inizialmente in prova. Tu però ci hai sempre creduto, vero?

«A dirla tutta il mio contratto all’Olympiacos era valido ancora per una stagione. L’arrivo di un nuovo allenatore, con idee diverse dalle mie, ha complicato il tutto, spingendomi lontano dal Pireo. I cambiamenti, in ogni caso, non mi spaventano. Ci sono abituato. E, tra l’altro, avevo diverse offerte sul tavolo. Ho voluto prendermi un po’ di tempo, perché aspettavo il progetto giusto. Tramite il mio caro amico Marco Borriello e Andrea Radrizzani è quindi nata la trattativa con la Sampdoria. E la verità è che i dubbi del club, in un primo momento, erano legati unicamente alla mia condizione fisica. A parlare, poi, è stato il campo. Sì, sono stato bravo io».

La maglia della Sampdoria è di quelle pesanti, e non è fatta per tutti. A Genova ho trovato un progetto sportivo all'altezza delle mie ambizioni

Hai menzionato il progetto sportivo dei blucerchiati. Tornare ad assaporare la Serie A e farlo con la Samp sono i tuoi grandi obiettivi?

«È così. Non mi accontento e nella Sampdoria ho trovato la benzina per alimentare le mie grandi ambizioni. Christian Karembeu, che ho avuto come dirigente all’Olympiacos e che ha vestito la maglia blucerchiata, mi aveva d’altronde parlato solo bene di questa realtà. Ecco perché non ho impiegato molto tempo per decidere di rimettermi in gioco a Genova. Sono arrivato in settembre, a campionato già iniziato, ma - per fortuna - sono riuscito a salire al volo sull’ultimo treno».

La tua carriera è stata forgiata dalla Serie A. Nell’estate del 2010, a soli 18 anni e dopo i 6 mesi vissuti in Super League con il Bellinzona, firmasti per il Palermo. Domani pomeriggio tornerai da avversario proprio al Renzo Barbera. Con quali emozioni?

«Con molte emozioni. È una partita speciale, non lo nego. Mio padre è venuto a trovarmi per Pasqua e, per la prima volta, ha avuto la possibilità di vedermi in campo in Italia. È stato un momento molto bello e forte. E anche lui, appunto, mi ha ricordato l’importanza della sfida con il Palermo. Il passaggio in Sicilia, da giovanissimo, è stato importante. Ma anche molto duro. Insomma, mi ha messo alla prova come uomo e come calciatore. Il valore di quella squadra, d’altronde, era clamoroso. Miccoli, Ilicic, Pinilla, Pastore, Hernandez, Balzaretti, Darmian: sono solo alcuni nomi che mi sento di fare. Campioni veri, con i quali non puoi permetterti di non essere all’altezza».

In quel periodo, in Italia, un centrocampista su tutti dominava la scena: Andrea Pirlo. Oggi è il tuo allenatore. Che personaggio è?

«Essere guidati da una figura del genere, una leggenda del calcio italiano, è un privilegio. Ma, al di là della sua incredibile carriera, è il Pirlo allenatore quello con cui mi misuro quotidianamente. E i suoi consigli mi hanno permesso di migliorare diversi aspetti del mio gioco. Da fuori, il mister nota dei dettagli che in campo ci sfuggono. Ed è così, alla fine, che si riesce a fare la differenza. Il gruppo che ha creato, inoltre, è sano. E, come dicevo, quando è al completo ha dimostrato di essere fra i più forti della Serie B».

«Pato», tu sei un classe 1992. Come i vari Xhaka, Rodriguez, Seferovic. Con la maglia rossocrociata sei salito sul tetto del mondo. Ma in una chiamata dalla Nazionale, magari per l’Europeo in Germania, credi ancora?

«Ci credo, sì. Mentirei, per esempio, se dicessi che alla vigilia dell’ultima sosta non ho controllato le convocazioni del ct. La domanda, quindi, dovrebbe essere posta a Murat Yakin. O a Pierluigi Tami, con il quale vi sono per altro stati dei contatti in dicembre. Le porte, per il sottoscritto, non sono chiuse. Ma per quanto mi riguarda posso influenzare solo le prestazioni in campo. E, in questo senso, sarà importante dare continuità alle prove positive offerte sin qui».

Ho l'impressione di non essere mai stato compreso dall'ambiente rossocrociato

Ma, oggettivamente e alla luce del contributo offerto alla Sampdoria, senti di meritare una chiamata?

«Perché non dovrei essere all’altezza della Nazionale? Perché gioco in Serie B? Ripeto: a parlare per Pajtim Kasami sono numeri e prestazioni. Oltre al fatto che alla Sampdoria mi sono state subito affidate importanti responsabilità. Insomma, tutti - a partire dai blucerchiati - conoscono le mie qualità. E sono dell’idea che per la Svizzera dovrebbero giocare gli elementi più forti. Sempre. Non mi resta che continuare a dimostrarlo con il mio club, parcheggiando la Nazionale in un angolo del cervello e - in ogni caso - senza nutrire particolari speranze circa una nuova opportunità».

Non aver mai disputato un Mondiale o un Europeo con la selezione maggiore ti infastidisce?

«Sì. Lo ammetto, è un grande rimpianto. E ne sono dispiaciuto. Anche perché in un paio di occasioni ci sono andato vicinissimo. Penso soprattutto all’Europeo del 2016, quando rimasi a casa nonostante il titolo vinto con l’Olympiacos e dopo aver disputato l’intera campagna di qualificazione. Davvero, non ho mai capito le ragioni che spinsero Vladimir Petkovic a escludermi. E ciò a differenza dei Mondiali brasiliani del 2014: Ottmar Hitzfeld, almeno, si premurò di chiamarmi e spiegarmi le ragioni alla base del mio nome solo sulla lista di picchetto».

E la tua nomea di testa calda, o presunta tale, c’entra qualche cosa?

«Più in generale ho l’impressione di non essere mai stato compreso dall’ambiente rossocrociato. Sì, forse a causa di una reputazione sbagliata che, però, nei fatti non m’appartiene. Sta di fatto che il bonus concesso ad altri a Pajtim Kasami non è mai stato accordato. Per tacere, e lo ribadisco, delle qualità e delle caratteristiche che ritengo di possedere. E che in Svizzera hanno in pochi. Non mi spiego in altro modo l’esordio sotto la gestione Hitzfeld, quando - con tutto il rispetto - la concorrenza e i valori a centrocampo erano un tantino più elevati rispetto a oggi. E io, a nemmeno 22 anni, ero un titolare del Fulham in Premier League. Certo, dover sgomitare per un posto con gente come Inler, Behrami, Dzemaili e Fernandes ha altresì costituito uno svantaggio. Sono stato un po’ sfortunato pure a livello di timing. E vi faccio un esempio: la mia ultima convocazione - nel novembre del 2020 con Petkovic in panchina - combaciò con il famoso match di Nations League contro l’Ucraina, annullato all’ultimo a causa delle infezioni da coronavirus tra gli avversari».

In dicembre ci sono stati dei contatti con Pierluigi Tami: la porta della Svizzera, per me, non è chiusa, ma non nutro particolari speranze per l'Europeo

Tra il 2017 e il 2022 non hai avuto paura di rimetterti in gioco in Super League, con Sion e Basilea. Che effetto fa vedere i renani in piena lotta per non retrocedere?

«Fa molto male. A maggior ragione poiché, ancora oggi, non ho digerito del tutto la mia separazione dal club. E penso che la mia ultima partita con il Basilea, nel maggio del 2022, avesse sintetizzato alla perfezione il mio stato d’animo. Partito dalla panchina, in rete 120 secondi dopo il mio ingresso in campo e - appena tre minuti più tardi - persino espulso. In quella gara, insomma, si erano mischiate la mia rabbia e la mia frustrazione per una situazione che non mi sembra essere mutata al St. Jakob. Ecco perché non sono sorpreso delle difficoltà della squadra. Nel calcio le cose vanno molto veloci e i renani devono fare molta attenzione».

Il match di cui parli - e il gol che regalò la vittoria al Basilea - ebbe quale vittima il Lugano. Un tuo passaggio al club bianconero, in questi anni, non è mai stato un tema?

«No, di concreto non c’è mai stato nulla. Al massimo qualche scambio di battute con Mattia Croci-Torti, che non ha mai smesso di lamentarsi per tutte le reti che ho fatto al Lugano (ride, ndr). Scherzi a parte, devo fare i miei complimenti ai bianconeri. Non sono sorpreso dei cattivi risultati del Basilea e non lo sono nemmeno dell’attuale classifica del Lugano. Nel calcio la serietà e il lavoro pagano sempre. E, quindi, non è un caso che la squadra sia in lotta per il titolo. La società sta crescendo, l’allenatore è capace e i giocatori di spessore non mancano».