Pugilato

«La boxe è come una danza, il segreto è cambiarle il ritmo»

Bruno Bernasconi, inserito nella nazionale svizzera, racconta il suo amore per il pugilato, una scintilla scoccata da bambino guardando i film di Rocky con suo padre
Bruno Bernasconi ha finora già disputato diversi incontri all’estero, per esempio in Italia e in Marocco. © Igor Grbesic
Maddalena Buila
11.05.2023 06:00

Da inizio anno è stato inserito nella nazionale svizzera di boxe ad appena 21 anni. È un allievo della palestra Fight Gym Boxing Lugano ed è allenato da Morris Ricciardo, Federico Beresini, allenatore della Nazionale, e Vladimir Vinnikov, già coach del doppio campione olimpico Lomachenko. Bruno Bernasconi racconta il suo amore per il mondo del pugilato.

Bruno, da dove nasce la tua passione per questo sport?

«Non ne sono certo. Forse guardando i film di Rocky da bambino con mio papà. Una scintilla scoccata però inconsciamente e divenuta via via sempre più intensa con il passare del tempo. Ho iniziato a circa 8 anni, mostrandomi però incostante e abbandonando la disciplina qualche tempo dopo. Per poi riabbracciarla quando ne avevo 15. Da lì non l’ho più lasciata. Nonostante sia cresciuto con un senso di inadeguatezza per via di un’infanzia solitaria e difficile, lo sport mi ha insegnato a esprimermi e a creare abitudini costruttive che mi hanno reso la persona che sono oggi».

Oltre allo sport cosa occupa le tue giornate?

«La scuola. Sto frequentando il terzo anno della Commercio di Massagno».

Come concili la boxe con lo studio?

«Non sempre alla perfezione (ride, ndr). Lo sport mi prende tanto tempo ed energie. Prima di un evento importante mi alleno molto, restando lontano dai banchi di scuola per qualche giorno, un aspetto non sempre apprezzato. Ed è anche comprensibile, la mia non è una scuola di sportivi. Ci sono però opportunità che capitano una volta nella vita. È giusto coglierle e provare a realizzare i propri sogni».

Cosa rende unico questo sport?

«L’aspetto mentale. Vedo la mia disciplina come una danza. I due combattenti si muovono quasi a ritmo, aspetto che li aiuta a riflettere, reagire e prevedere le mosse dell’altro. Mi piace leggere l’avversario, capire il suo ritmo e sconvolgerlo. Così facendo posso anticiparlo e cambiare il tipo di danza che stiamo ballando, passando da un lento a un jive. È così che si prendono in mano le redini dell’incontro».

Quanto e come ti alleni?

«Dipende da periodi. A gennaio, per esempio, sono stato una settimana in Ungheria per un campo di allenamento con la nazionale locale. Al momento mi sto preparando per un torneo a Parigi e uno in Portogallo. Dunque mi alleno due volte al giorno per un totale di 6 ore. Normalmente, invece, svolgo 5-6 sessioni alla settimana da 2 ore. Poi c’è la preparazione mentale, altrettanto importante. I miei pensieri, i movimenti, il respiro, la gente che mi circonda, fa tutto parte dell’avvicinamento al prossimo incontro».

Le Olimpiadi? Sarebbe un sogno parteciparvi e portare in alto il nome della Svizzera

Come hai preso la notizia del tuo innesto nel team rossocrociato?

«Sono molto contento di poter difendere i colori della Svizzera. Chi lo sa, magari potrò farlo già a Parigi 2024, non sarebbe un traguardo irraggiungibile se centrassi importanti vittorie in questi mesi. Qualora non ci riuscissi, potrei però riprovarci tra cinque anni».

Ti spaventa il fatto che si tratta di uno sport dove ogni colpo può potenzialmente lasciarti brutte conseguenze?

«Direi di no. Certo, è una disciplina che comporta dei rischi. Lo si sa. È per questo che cerco sempre di prediligere l’aspetto più artistico di questo sport, rispetto a quello puramente più manesco. Tornando a Rocky, per esempio, nel film si vedono i protagonisti che si tirano colpi molto forti, che sanguinano e soffrono. Ed è vero, anche questi aspetti fanno parte del gioco. A me però piace anche mostrare che non bisogna per forza arrivare a questo punto. Non si deve sempre rischiare la vita per vincere».

Ti piacerebbe fare di questo sport la tua professione? E sarebbe possibile farlo in Svizzera?

«Partiamo dalla seconda domanda. Sì, è fattibile vivere di questo sport nel nostro Paese, anche se i casi sono nettamente minori rispetto, ad esempio, agli Stati Uniti. Se vorrei essere uno di questi? Forse (ride, ndr). Ma preferisco non fare il passo più lungo della gamba. Sicuramente è un’idea che mi affascina, ma vedremo cosa mi attenderà in futuro».

Valuteresti l’idea di cambiare completamente vita cercando fortuna in altri Paesi, come per esempio l’America, che valorizzano maggiormente questa disciplina rispetto alla Svizzera?

«Non lo so. Per il momento il mio obiettivo è dimostrare che anche il nostro Paese può far parte dei big mondiali della boxe. Mi piacerebbe diventare il modello di questo sport alle nostre latitudini ed essere un esempio per le generazioni future».