L'editoriale

HC Lugano: il giocattolo si è rotto, sarà dura ripararlo

Per i bianconeri è la crisi di non ritorno: il club paga lacune a 360 gradi a livello decisionale, strategico e comunicativo
Flavio Viglezio
28.02.2025 15:30

Il 1. marzo 1986 il Lugano vinceva a Davos il suo primo titolo nazionale. Il 1. marzo 2025, contro il Bienne, il Lugano chiuderà senza gloria la peggiore stagione regolare della sua storia, esattamente 39 anni dopo quella indimenticabile e trionfale serata. A legare ancora oggi due realtà profondamente diverse – in tempi profondamente diversi – è un cognome: Mantegazza. Dai fasti dell’era Geo alle delusioni della gestione targata Vicky. E non è finita qui. Questo disastrato Lugano si appresta ad affrontare il playout con l’Ajoie – e a tifare Turgovia nella semifinale dei playoff di Swiss League contro il Visp – dopo aver vissuto l’ennesima macroscopica crisi di questi tormentati anni. Quella di non ritorno. Il giocattolo si è rotto e sarà dura ripararlo. L’effetto palla di neve ha raggiunto il suo apice, dopo stagioni salvate solo da qualche emozione nei play-in: negli ultimi cinque mesi sono emerse all’ennesima potenza l’inadeguatezza e le lacune a 360 gradi di questa dirigenza a livello strategico, decisionale e comunicativo. Il fallimento di una politica societaria – perché di questo si tratta – è molto più grave e preoccupante di una stagione sportivamente insoddisfacente. Anche se spesso – ed è ciò che è accaduto alla Cornèr Arena – le due situazioni vanno a braccetto.

Quello dell’Hockey Club Lugano è il fallimento di una strategia… che di strategico ha poco o nulla. La società bianconera avrebbe dovuto e potuto costruire il suo futuro a medio termine sulle basi delle due finali raggiunte anche un po’ a sorpresa nel 2016 e nel 2018: ha invece colpevolmente marciato sul posto, cullandosi beatamente nell’utopia di essere tornata a far parte del gotha dell’hockey svizzero. Il tanto sbandierato DNA bianconero, di fatto, non esiste più. Il club ha continuato e continua a farsi travolgere da fatui innamoramenti (Kapanen, McSorley e Gianinazzi, solo per citare gli allenatori) ed è vittima di una gestione amatoriale che non ha più nessuna ragione di essere nello sport professionistico dei giorni nostri. Il rischio concreto è allora quello di cadere ancora più in basso. L’esempio più eclatante è rappresentato da una «commissione sportiva» totalmente anacronistica e autolesionistica, all’interno della quale Hnat Domenichelli ha progressivamente perso potere decisionale e autonomia per la contemporanea presenza della presidente, del CEO Marco Werder e del vicepresidente Andy Näser. No, l’ormai ex direttore sportivo non ha fatto tutto giusto, ha anzi pesanti responsabilità, ma non può e non deve diventare il capro espiatorio dietro al quale i vertici societari possono nascondersi per giustificare gli insuccessi e pulirsi così la coscienza verso l’esterno. No, il Lugano non ha «probabilmente sbagliato alcuni giocatori», come ha voluto spiegare a caldo Vicky Mantegazza. Troppo semplice. Ha sbagliato praticamente tutto e a tutti i livelli.

Il caso Calle Andersson, la gestione di Leandro Hausheer, la precipitosa fuga di Justin Schultz, la politica degli stranieri con i profili che cambiano da un anno all’altro senza nessun senso logico, le parole di capitan Thürkauf nascoste come la polvere sotto il tappeto, l’assurdo prolungamento dei contratti di Cormier e Patry con tanto di stilettata a Domenichelli: sono solo alcune delle situazioni che fotografano confusione, assenza di coerenza decisionale e mancanza di pianificazione societaria. Potremmo andare avanti a lungo, ma sarebbe come sparare sulla Croce Rossa.

Ovviamente, l’acme è stata toccata con Luca Gianinazzi. Fortemente voluto da Werder, è rimasto a lungo in sella anche quando si era purtroppo da tempo capito che il messaggio tra l’ormai ex coach e la squadra non passava più. Si è temporeggiato per orgoglio personale, senza pensare alle pesantissime conseguenze che si sono poi puntualmente verificate: è stato così bruciato un giovane tecnico cresciuto in casa e di buone prospettive, mentre la squadra perdeva desolatamente il treno per i playoff.

Ma le responsabilità, in casa Lugano, sono sempre esterne. Il club bianconero è semplicemente incapace di fare una vera autocritica, in modo da correggere concretamente – e non solo a parole – ciò che è correggibile. Presunzione, alterigia, superbia: le colpe sono sempre e solo degli altri. Del ds che ha sbagliato gli acquisti, del pubblico che borbotta, dei media ipercritici e di parte, della Lega. In questo senso la conferenza stampa in cui si annunciava l’esonero di Gianinazzi ha toccato vette elevatissime, a livello di incapacità di analisi da parte del club. Della presidente e del CEO in particolare, più a loro agio nel togliersi sassolini dalle scarpe che a risolvere le magagne di questa società. Ora, in vista dei playout, si chiama a raccolta il pubblico, «perché è troppo facile sostenere la squadra quando va tutto bene». Surreale. Come surreale è parlare ancora piuttosto regolarmente di titolo svizzero, quando si è scelto di ridurre drasticamente gli investimenti finanziari. No, non tocca più ai tifosi. Adesso tocca al club, tocca a una dirigenza che ha rotto il giocattolo. Sarà durissima ripararlo, chiunque sia il nuovo direttore sportivo. Servirebbe una vera visione aziendale: questo Lugano, purtroppo, non ce l’ha.

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