HC Lugano: il puzzle e il riccio
Doveva essere il Deus ex machina, l’uomo della provvidenza pronto a caricarsi sulle spalle il Lugano per tirarlo fuori dalla melma. Ed invece l’avventura di Justin Schultz in bianconero è durata meno di due mesi. Verrà ricordato come uno degli stranieri che ci ha messo più tempo ad arrivare in Svizzera – dopo l’annuncio del suo ingaggio – e che se n’è andato più velocemente. Otto presenze per bruciare una licenza. Mica male. La seconda, dopo quella utilizzata per Adam Huska, il portiere subito finito ai margini del progetto. Sempre che ci sia un progetto, a Lugano. Schultz – stando al comunicato della società – se ne va «per motivi strettamente personali». Come se si fosse alzato, una mattina, e di punto in bianco avesse deciso di lasciare il Ticino. E di chiudere addirittura la carriera. Solo a Lugano, vien da dire. Ci sono sempre ragioni personali, alla base di decisioni di questo tipo. Non si trattava di sbandierarli ai quattro venti, ma ancora una volta nelle difficoltà il club ha scelto di chiudersi a riccio e di non commentare l’ennesima tegola di questa disastrata stagione. La trasparenza, questa sconosciuta. E allora di riflesso – fisiologicamente – il malumore della piazza aumenta.
Forse il Lugano non si è reso conto che di questi tempi, alla Cornèr Arena, parlano anche i muri: diventa sempre più complicato nascondere la polvere sotto il tappeto. Sì, anche sul caso Schultz i muri parlano. Una classifica che mette i brividi, una squadra sfiduciata, scelte di mercato al limite del comprensibile e dell’accettabile, i messaggi inviati da capitan Thürkauf, la decisione di affiancare Antti Törmänen a Gianinazzi e adesso anche l’improvvisa partenza di Schultz. Tanti pezzi di un puzzle che traducono un malessere profondo, che si trascina ormai da anni. Senza che – ed è questo l’aspetto più grave – ci sia davvero una presa di coscienza della situazione, ai piani alti. Se non a parole: ma quelle, si sa, se le porta via il vento. Il Lugano è caduto talmente in basso in questi ultimi anni – e non solo a livello di punti in classifica – che se scava ancora un po’ rischia di trovare il petrolio, sotto la pista. Già, a volte bisogna farsi una risata, per non piangere. La situazione in cui si è cacciato il Lugano invita inoltre a pensare male. Si fa peccato – diceva Giulio Andreotti – ma quasi sempre ci si azzecca. La malattia che ha impedito a Schultz di scendere in pista nelle due partite dello scorso weekend – costringendo la squadra bianconera a giocare con uno straniero di movimento in meno – appare oggi più diplomatica che reale. No?
La verità – che ci eravamo permessi di scrivere in tempi non sospetti – è che Schultz con un minimo di pianificazione non avrebbe mai dovuto arrivare in Ticino. Non era il profilo giusto, funzionale ai bisogni di una squadra in piena crisi. A 34 anni era fermo da mesi, con la pancia piena di successi e un ricchissimo conto in banca. «Ma non potevamo lasciarci sfuggire un’occasione così», avevano affermato dirigenti e staff tecnico. Il risultato oggi è sotto gli occhi di tutti. Lo scenario di un inverno bianconero che si annuncia lungo e rigidissimo sembra già scritto: chi rischia di più, a fine campionato, è Hnat Domenichelli. Il direttore sportivo – non esente da colpe, anzi… – pagherà con ogni probabilità per tutti. E diventerà il capro espiatorio sul quale pulirsi la coscienza, distogliendo l’attenzione dai veri problemi. E chissà, magari la separazione verrà ufficialmente motivata da «motivi strettamente personali».