Hockey

Il cuore del Cere: «Vent’anni fa l’intervento che cambiò la mia vita»

Il 19 ottobre del 2000 Luca Cereda veniva operato a Losanna per una malformazione cardiaca - L’allenatore dell’Ambrì Piotta, all’epoca in forza ai Toronto Maple Leafs, ripercorre con noi l’intera esperienza
Luca Cereda nella sua stanza d’ospedale dopo l’intervento. © KEYSTONE/Fabrice Coffrini
Fernando Lavezzo
19.10.2020 19:07

Vent’anni proprio oggi. Vent’anni dall’intervento al cuore subito da Luca Cereda il 19 ottobre del 2000 al CHUV di Losanna. All’epoca l’attuale coach dell’Ambrì Piotta era un diciannovenne di grandi speranze, appena approdato in quei Toronto Maple Leafs che lo avevano scelto in 24. posizione al draft NHL. Quell’autunno ha lasciato tracce indelebili nella vita del Cere, con il quale ripercorriamo la vicenda.

Sono giorni intensi per Luca Cereda. Domani la sfida casalinga con il Losanna, venerdì la rivincita a Malley. In mezzo, mercoledì e giovedì, due giorni di controlli al cuore. «Li faccio tutti gli anni e c’è sempre un po’ d’apprensione», racconta il 39.enne di Sementina. «Dopo l’intervento del 2000, i medici mi diedero garanzie per 15-20 anni. Insomma, ormai ci siamo. Fino all’anno scorso è andato tutto bene, non sono emerse problematiche o necessità di nuove operazioni. Però il tempo passa e i pensieri corrono. Ogni anno, quando s’avvicina il controllo, mi sale un po’ d’ansia, mista a curiosità, per sapere come vanno le cose. Quanto accaduto vent’anni fa, mi ha davvero cambiato la vita».

«Oggi vacci piano»
Il 23 settembre del 2000 i Maple Leafs resero pubblici i problemi di Cereda: malformazione congenita della valvola cardiaca. «La prima volta che ne sentii parlare – ricorda Luca – ero a Toronto, al campo d’allenamento. Il primo giorno ci sottoposero a degli esami e già lì notarono qualcosa di anomalo nell’elettrocardiogramma a riposo. Decisero allora di mandarmi da uno specialista per degli approfondimenti».

La visita specialistica si concluse con una frase che il ticinese non scorderà: «Sapendo che quel giorno avrei avuto allenamento, il cardiologo mi disse di andarci piano, perché qualcosa non quadrava. Appena tornai in pista, pensai: ‘‘Come faccio ad andarci piano con questi mostri della NHL?’’».

Quell’allenamento, in realtà, Cereda non lo iniziò neppure per decisione dello staff medico. «Già da qualche giorno il gruppo di giocatori aggregati ai Maple Leafs si stava assottigliando, per cui i giornalisti presenti volevano sapere come mai non fossi sceso sul ghiaccio. Mi fecero uscire da una porta di sicurezza, mi mandarono dritto in hotel e mi dissero di restare lì, in attesa di aggiornamenti. In serata mi comunicarono l’entità del problema cardiaco, aggiungendo che si sarebbe reso necessario un intervento chirurgico e che fino a nuovo avviso non sarei più sceso sul ghiaccio».

Fui costretto a fermarmi per un difetto che mi accompagnava dalla nascita, ma di cui nessuno si era accorto. Il cuore era già bello ingrossato e c’era il rischio che scoppiasse

«Mi sentivo in gran forma»
Per Luca fu una doccia fredda. Dal suo arrivo in Canada, tutto stava andando a gonfie vele. Pochi giorni prima aveva segnato il suo primo gol in amichevole contro Edmonton e coach Pat Quinn aveva grande considerazione di lui: «Stavo proprio bene», spiega il Cere. «Può sembrare strano, ma sono state le migliori settimane della mia carriera. Mi sentivo in gran forma, sia fisicamente, sia mentalmente. Il campo con i Maple Leafs stava procedendo per il meglio, al punto che lo staff tecnico stava rivedendo i piani su di me: inizialmente avrei dovuto giocare un anno negli juniores con gli Ottawa 67s, ma stava prendendo piede l’ipotesi di tenermi in NHL – con il rischio di giocare pochino – oppure di girarmi al farm team di AHL, a St. John».

«Poteva scoppiare»
Mai come in questo caso, al cuor non si comanda. «Fui costretto a fermarmi per un difetto che mi accompagnava dalla nascita, ma di cui nessuno si era accorto. In Svizzera non ero mai stato sottoposto ad un elettrocardiogramma a riposo. Sotto sforzo, la mia problematica veniva nascosta. I medici non l’avevano mai trovata e io non avevo mai avvertito sensazioni strane. Ogni tanto mi sentivo stanco, ma tra impegni sportivi e scolastici era normale. Se a Toronto non se ne fossero accorti, più tardi si sarebbero palesati dei problemi seri. In poche parole, nel mio cuore c’era sempre più sangue da pompare fuori. Essendo un muscolo, si era adattato a questa situazione sin dalla nascita, rinforzandosi e impedendomi di percepirne il malfunzionamento. Per fortuna in Canada lo hanno individuato: il cuore era già bello ingrossato e c’era anche il rischio che potesse scoppiare».

Un giovane allenatore. © CdT/Gabriele Putzu
Un giovane allenatore. © CdT/Gabriele Putzu

«Torno a casa mia»
Ricevuta la brutta notizia, Luca iniziò a pianificare l’intervento: «Avevo solo 19 anni, ero un po’ ignorante e incosciente. Pensavo solo ad operarmi in fretta per poter ricominciare a giocare il prima possibile. I Maple Leafs suggerirono di affidarmi ad un chirurgo della zona, tra i migliori del Nordamerica, ma aveva una lista d’attesa di tre mesi. Chiamai i medici dell’Ambrì per capire come funzionavano le cose da noi e mi dissero che nel giro di qualche settimana, dopo gli esami del caso, sarebbe stato possibile intervenire. Decisi quindi di tornare qui, pensando anche alla riabilitazione: essere a casa mia, con la mia famiglia, avrebbe reso tutto più facile, anche a livello di comunicazione con i medici».

A fine settembre, Luca rientrò dunque in Ticino: «Feci degli esami a Bellinzona, poi mi proposero di scegliere tra Zurigo e Losanna per l’intervento. Per una questione di lingua, optammo per il CHUV. Andai lì a conoscere il professore con i miei genitori e una settimana dopo entrai in ospedale».

«Dov’è la collanina?»
Forse per ingenuità, forse per carattere, Luca affrontò quei giorni senza timore: «Non sapendo cosa aspettarmi, non avevo paura. Avevo l’impressione che tutto si sarebbe sistemato, nonostante lo specialista, durante l’incontro con i miei genitori, mi suggerì di iniziare a riflettere su un futuro lontano dall’hockey. Dentro di me pensai: ‘‘Sì, sì, d’accordo, tu operami bene, che io appena posso torno sui pattini’’. A mia mamma e a mio papà dissi la stessa cosa: ‘‘Proverò a giocare ancora. Se non funzionerà, vedremo’’. Loro mi sostennero in questa scelta. Ero proprio incosciente, ma ho affrontato la situazione con tranquillità, senza mai agitarmi».

La sera del 18 ottobre, Luca venne addormentato, per poi essere operato il mattino seguente. Otto ore sotto i ferri. «Al risveglio, la mia prima preoccupazione fu per una collanina che avevo ricevuto a 18 anni. Non c’era più, non sapevo dove fosse finita. L’ho ritrovata due anni dopo nel taschino di una borsa, dove era stata riposta dagli infermieri».

«Ricominciare da zero»
Archiviato l’intervento, iniziò una lunga riabilitazione: «Prima quella cardiaca, poi quella sportiva. Quest’ultima fu interminabile e noiosa. Dovetti ricominciare quasi da zero, sia a livello fisico, sia a livello tecnico. Un lavoro durato un anno, fino alla stagione successiva, quando tornai a giocare in AHL con i St. John’s Maple Leafs. Lo staff di Toronto, durante l’anno di pausa, si informò regolarmente sulle mie condizioni. Mi convocò anche due volte in Canada per dei test medici e fisici. La prima volta il cuore stava benissimo, ma lo sterno non si era del tutto saldato. In Svizzera mi spiegarono che era normale, che ci sarebbero volute ancora alcune settimane di pazienza, mentre a Toronto volevano riaprirmi per risolvere la cosa. Li convinsi ad attendere e infatti si sistemò tutto quanto nei tempi previsti».

Luca Cereda nel 2005, di ritorno alla Valascia. © CdT/Archivio
Luca Cereda nel 2005, di ritorno alla Valascia. © CdT/Archivio

«Troppi rischi»
La carriera di Cereda continuò con due campionati e mezzo in AHL, uno e mezzo a Berna con tanto di titolo nel 2004, due anni con l’Ambrì, due Mondiali. Poi, alla vigilia della stagione 2007-08, ecco lo stop definitivo, a 26 anni. Di nuovo per colpa del cuore: «La valvola andava bene, ma l’aorta si stava allargando. In uno sport di contatto, il rischio era troppo elevato e ogni parere medico – ne ho sentiti tre – concordava: era il caso di smettere. Emerse pure che di notte avevo delle pause molto lunghe tra un battito e l’altro. Tra il primo e l’ultimo parere medico, ricordo una settimana di allenamenti durissimi. Feci fatica: dentro di me sapevo che al 99% avrei smesso, ma non volevo dirlo a nessuno».

«Porte chiuse, porte aperte»
Forse oggi, senza i problemi cardiaci, Luca Cereda sarebbe ancora in pista, a 39 anni. «Può darsi. Di sicuro non sarei l’allenatore dell’Ambrì. I casi della vita chiudono delle porte e ne aprono altre. Ogni tanto penso a dove sarei potuto arrivare come giocatore se avessi avuto un cuore sano. Dopo l’operazione, solo nei playoff del 2006 contro il Lugano mi sono sentito davvero bene. Per il resto, non ho mai più avvertito le sensazioni precedenti. Quelle di 20 anni fa. Avevo meno fiducia nel mio corpo. Viste le premesse, credo comunque di aver dato e raggiunto il massimo, ma mi sarebbe piaciuto vedere cosa avrei potuto ottenere senza l’operazione. Di più? Di meno? Non lo saprò mai».