Il commento

Il Lugano, l'Ambri e il cane che si morde la coda

Pensieri e riflessioni dopo l'ennesimo weekend in chiaroscuro delle ticinesi dell'hockey
Flavio Viglezio
24.11.2024 19:23

Pensieri e riflessioni. Cosa rimane di questo weekend hockeistico, incentrato principalmente sul secondo derby stagionale? Non molto, a dire il vero. Lugano e Ambrì Piotta – nonostante il successo dei bianconeri contro i biancoblù e quello dei leventinesi sul Friburgo – non decollano. Continuano a vivere in un limbo fatto di approssimazione, di poche luci e troppe ombre, augurandosi ad ogni minimo raggio di sole di essere tornati sulla strada giusta. Quasi a voler esorcizzare a parole le difficoltà. Dichiarazioni e analisi ai confini del surreale testimoniano invece sovente di un distacco dalla realtà – e quindi dal contesto globale – che non può non preoccupare. Dopo un derby di livello tecnico per lunghi tratti imbarazzante, il Lugano è bruscamente tornato con i piedi per terra. Battuto con poche attenuanti alla Cornèr Arena, l’Ambrì Piotta è perlomeno riuscito ad interrompere un’emorragia che, fisiologicamente, non poteva comunque durare in eterno. Dire che il peggio è alle spalle sarebbe però quantomeno azzardato. Intanto la classifica delle ticinesi dà più brividi che le rigide temperature di questo novembre inoltrato. «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie», scriverebbe un improbabile Ungaretti osservando bianconeri e biancoblù annaspare, cercando un invisibile appiglio per ripartire su nuovi basi.

Cosa rimane di questo weekend? Le orribili minacce di Chris DiDomenico ad un collega di lavoro, seppur acerrimo rivale sul ghiaccio. Un comportamento inaccettabile e abietto, in un mondo che dovrebbe veicolare messaggi positivi. Eppure – ed è questo il peggio – nessuno in casa leventinese si è sentito in dovere morale di condannare le parole dell’attaccante canadese. Bisogna capirlo, è fatto così. Altro che cultura sportiva. Si volta pagina, come se nulla fosse.

Altri pensieri, altre riflessioni. Sui due allenatori, per esempio. I due club rischiano di rimanere vittime di strategie che avrebbero invece dovuto gettare le fondamenta di un futuro più roseo. Lugano e Ambrì Piotta – in tempi diversi – hanno puntato tutto o quasi sull’identità ticinese di Gianinazzi e Cereda. L’attaccamento affettivo impedisce oggi una valutazione razionale del loro operato. No, il Giana e il Cere non vanno cacciati, non meritano di essere gettati via come stracci vecchi diventati inutili. Ma i proclami che hanno preceduto la loro investitura e il legame con i rispettivi direttori sportivi precludono oggi un’analisi lucida della situazione. «Sarà il mio ultimo allenatore» da una parte, «Cereda resta anche se perde 20 partite di fila» dall’altra: non sarà insomma la pressione popolare o mediatica a decidere che ne sarà di Gianinazzi e Cereda. Chi si permette qualche osservazione, chi si pone qualche lecita domanda, commette un crimine di lesa maestà: meglio far finta di nulla, magari fino a sbattere la testa contro il muro. Sperando che prima o poi, come per incanto, tutto diventi più bello. L’hockey – lo gridano ai quattro venti le stesse società – è un business. Per quale motivo allora un coach di casa nostra meriterebbe criteri di valutazione meno severi rispetto a un collega nordamericano o svizzero tedesco?

Dura lex, sed lex. La legge è dura, ma è la legge. Anche nelle regole non scritte dello sport professionistico. Gianinazzi e Cereda andrebbero valutati solo e soltanto nell’ottica del bene dei rispettivi club. Il futuro a medio e lungo termine di Lugano e Ambrì Piotta è adesso, ma la sensazione è che i club stessi non sempre se ne rendano conto. O fingono di non rendersene conto. In questo autunno di lacrime, la pianificazione diventa allora fondamentale. Il Giana è sempre l’uomo giusto per puntare ad un salto di qualità atteso ormai da anni alla Cornèr Arena? E dopo tante stagioni, il Cere è ancora in grado di garantire i giusti impulsi alla squadra? Domande che meriterebbero risposte chiare da parte dei direttori sportivi. Che non possono però darle, perché legati a doppio filo con i loro rispettivi coach. È il cane che si morde la coda.

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