Hockey

Paolo Della Bella, il Lugano e il lavoro dei sogni

Intervista all'allenatore dei portieri bianconero: «Da giocatore ho preso decisioni impulsive, avrei dovuto avere più pazienza, ma ho vissuto esperienze uniche»
© CdT/Chiara Zocchetti
Fernando Lavezzo
24.09.2024 06:00

Paolo Della Bella è stato un estremo difensore di talento, un giramondo, un pioniere. Da una decina d’anni forma i giovani portieri dell’HC Lugano. E da questa stagione è stato promosso nello staff della prima squadra.

Allenatore dei portieri dell’HC Lugano: è il lavoro dei sogni?

«Per me sì. Sono sul ghiaccio da quando avevo quattro anni ed esserci rimasto dopo aver smesso di giocare è quanto di meglio potessi chiedere. Svolgere questo lavoro in National League, nella squadra di casa, rende tutto ancora più speciale».

La squadra di casa, dici bene. Ma è facile associarti all’Ambrì Piotta.

«Può darsi, perché con i biancoblù mi sono fatto conoscere nel massimo campionato, da giovanissimo. Sono salito in Leventina nell’estate del 1993, contribuendo poi alla vittoria del titolo juniores nel 1995-96. A 16 anni ho debuttato in LNA, dove ero riserva di Pauli Jaks».

Negli anni ’90 era dura ritagliarsi spazio per un portiere di riserva. Salvo infortuni, i titolari giocavano praticamente sempre…

«In regular season si disputavano appena trentasei partite, era molto diverso. Oggi sono cambiati l’utilizzo e la visione che si ha di un secondo portiere. Per quanto mi riguarda, non posso lamentarmi: il primo anno ad Ambrì ho giocato nove gare, comprese due di playoff, e il secondo sei. Nel frattempo, scendevo in pista con gli juniores ed ero spesso via con le Nazionali. Avevo sempre il mio bel daffare».

A Lugano lavori da tanti anni con i portieri del settore giovanile, insegnando loro il mestiere. Ora ti occupi anche di Schlegel e van Pottelberghe, che il mestiere lo conoscono già. Come è cambiato il tuo approccio?

«Già nei giovani l’approccio cambia a seconda dell’età. Nelle categorie U11 e U13 sei un insegnante di grammatica. Con gli U15 e gli U17 si aggiustano le tecniche acquisite. Nella U20 diventa uno scambio costruttivo. Per Niklas e Joren sono soprattutto un consulente, un sostegno. Li osservo, metto sul piatto quello che vedo, ci confrontiamo e decidiamo insieme la via da percorrere. Il preparatore dei portieri è anche un interprete tra lo staff tecnico e gli estremi difensori».

Lo staff tecnico bianconero è quasi tutto formato in casa. Cosa porta questa ticinesità?

«Oltre al vantaggio di conoscere la mentalità del posto, c’è un maggiore attaccamento al territorio. Noi non siamo qui con l’idea di fare bene per poi andare da un’altra parte. Abbiamo il desiderio di costruire qualcosa che duri nel tempo».

In un portiere convivono la tecnica, l’istinto, la mente. Ma quanto spazio occupa la scienza?

«L’hockey è sempre più veloce e studiare gli angoli, la posizione, la copertura, è diventato fondamentale. Al liceo non sapevo esattamente a cosa mi sarebbe servita la fisica. L’ho capito allenando i portieri».

Perché un bambino sceglie di giocare in porta?

«Dipende spesso da episodi. Quando ho cominciato a lavorare con i giovani dell’HCL, il portiere della prima squadra era Elvis Merzlikins. Un vero magnete, in tanti volevano essere come lui. Quando ho iniziato io, il portiere bianconero era Thierry Andrey. Mio papà mi portò a vedere una partita, scoppiò una bagarre e Andrey si buttò in mezzo alla rissa. A fine serata avevo già pianificato la mia carriera: avrei fatto il portiere e avrei indossato la maglia numero 35, come Thierry. Il portiere affascina anche per il suo equipaggiamento. Può personalizzare la maschera, scegliere il colore dei gambali, essere diverso».

Ma quindi, nei bambini che scelgono di fare il portiere, quali tratti caratteriali emergono? Sono i più «pazzi», come si pensa, o invece prevalgono gli introversi?

«Ci sono entrambi: quelli esuberanti e quelli a cui non tiri fuori le parole di bocca. Difficilmente si trovano le vie di mezzo. O un estremo, o l’altro».

L’allenatore Paolo Della Bella cosa insegnerebbe al portiere Paolo Della Bella di 25-30 anni fa?

«Più di tutto, ad avere pazienza. All’epoca entravo in tutte le nazionali giovanili con uno o due anni d’anticipo e scalpitavo. Oggi, osservando questo mondo da un’altra prospettiva, vedo l’importanza dell’intero percorso, delle tappe intermedie. Al giovane Paolo, direi di imparare a ingoiare la pillola e aspettare. Non era una mia dote. A livello tecnico, invece, avrei ben poco da dire, nel senso che oggi il ruolo del portiere è totalmente diverso rispetto agli anni Novanta. Adesso, nei tornei amatoriali, vedi portieri tecnicamente più eleganti di Patrick Roy».

L’impazienza ti ha penalizzato?

«Forse sì, forse no. Ho smesso di giocare a trentasei anni, togliendomi delle soddisfazioni anche in contesti diversi, dalla Russia al Nordamerica. In certi frangenti, pazientare un po’ mi avrebbe potuto dare qualche chance in più. E magari sarei rimasto di più in Svizzera invece di fare il giramondo».

L’impazienza è stata allora una spinta per scoprire cose nuove?

«Agivo d’impulso. L’esperienza del 2000 in Russia, ad esempio, è nata da un interesse del Metallurg Magnitogorsk. Non ci ho pensato su, ho subito detto di sì, firmando un contratto che neanche capivo, perché era scritto in russo».

Era un buon contratto?

«Mi hanno fatto fare il portiere di hockey, quindi sì, è andata bene. Ma il rischio che mi mettessero a lavorare altrove poteva esserci (ride, ndr.)».

Sei stato un pioniere: non solo il primo giocatore svizzero, ma addirittura il primo dell’Europa occidentale a trasferirsi nella Superlega russa.

«Prima di me c’era stato Thomas Liesch, grigionese, ma finì in una lega minore, nella seconda squadra della Dynamo Mosca. La Russia era una realtà sconosciuta, che avevo visto solo nei film di James Bond. Sono stato trattato benissimo ed ero oggetto di curiosità. Un portiere svizzero in Russia: era strano anche per loro. Fare lo straniero in una Lega così importante, con tutte le aspettative che ne derivano, mi ha insegnato a capire cosa provano gli stranieri che vengono a giocare da noi. Non è sempre evidente. Ma quella stagione a Magnitogorsk ha un posto speciale nel cuore. Ho ancora tantissimi amici da quelle parti».

Prima della Russia c’è stato il Canada, all’Università di Ottawa. Una scelta di vita o sportiva?

«Entrambe. Avevo iniziato la stagione 1997-98 a Davos, ma giocava sempre Nando Wieser. La squadra vinceva, lui dava garanzie e io, ancora una volta, non ho avuto pazienza. Dopo il Mondiale U20, avevo ricevuto diverse offerte da università nordamericane e decisi di partire. È stata una buona scelta, grazie alla quale oggi ho anche una laurea. Non la sto usando in senso stretto, ma mi ha dato un’ampiezza di vedute che altrimenti non avrei. I tre anni in Canada sono stati belli. Penso soprattutto alla vita universitaria, diversa dalla nostra. Ottawa, poi, è una città molto europea. Che freddo però! Ricordo che ci fecero fare la foto di squadra alle 5.00 del mattino sul canale ghiacciato. Non ve lo raccomando».

Nel 2001 sei tornato a Lugano. Con quali aspettative?

«Reduce dal titolo in Russia, speravo di giocare di più, ma diamo credito a Huet: era intoccabile. A metà stagione andai nel farm team a La Chaux-de-Fonds. Sportivamente non è stato un periodo positivo, ma a livello umano è stato importante tornare in Ticino dopo tanti anni trascorsi all’estero. Ho potuto passare più tempo vicino a mio papà, che è morto l’estate successiva».

Nel 2002 sei tornato in America, a Knoxville, in ACHL.

«Ho anche trascorso un periodo con i Mighty Ducks in AHL, poi sono tornato qui per giocare i playoff con l’Ajoie. In seguito, visto che avevamo una ditta di famiglia di cui dovevo curare gli interessi dopo la scomparsa di mio padre, decisi di andare a giocare in Italia. Una volta ceduta l’attività, ho portato avanti la mia più grande passione a Milano».

I Giochi di Cortina-Milano 2026 riaccenderanno l’interesse per l’hockey nella metropoli?

«Non sono fiducioso. Il fatto che la pista olimpica sia provvisoria la dice lunga. Per ricostruire ci vorrebbero anni».

E quanti anni ci vorranno per rivedere un portiere ticinese titolare nel Lugano?

«Nel settore giovanile ci sono diversi portieri promettenti, ma le variabili in gioco sono sempre tantissime. Ci vuole anche la fortuna di essere nel posto giusto al momento giusto».

E ci vuole pazienza…

«Sempre».