Basket

«La Germania ci credeva, Nowitzki mi aveva avvisato»

Riccardo Pratesi, firma della Gazzetta dello Sport, ripercorre il trionfo dei tedeschi ai Mondiali e il fallimento degli Stati Uniti
©AP
Fernando Lavezzo
12.09.2023 06:00

Germania campione del mondo di basket. Dove finisce la sorpresa e dove inizia la logica? Lo abbiamo chiesto a Riccardo Pratesi, firma della Gazzetta dello Sport. «La logica sta nella continuità. La Germania non ha dovuto improvvisare nulla come è invece successo ad altre squadre, confrontate con defezioni importanti. Ai tedeschi mancava Maxi Kleber, lungo di Dallas. Ma avevano un percorso alle spalle. E i giocatori cruciali erano tutti presenti. Per Dennis Schröder, MVP del Mondiale, è stata una consacrazione. Dei fratelli Wagner va tenuto d’occhio Franz, classe 2001: interessantissimo. Pochi giorni prima del Mondiale avevo parlato con Dirk Nowitzki, leggenda della NBA e del basket tedesco. Mi aveva anticipato che i suoi connazionali sarebbero andati in Asia per vincere una medaglia, descrivendomi un ambiente fiducioso. C’erano aspettative e anche tanta convinzione».

«Dietro l’exploit tedesco ci sono due club di tradizione come l’ALBA Berlino e il Bayern Monaco», prosegue Pratesi. «In generale, la Bundesliga è attrattiva per i giovani di talento non ancora pronti al salto in NBA. È l’ideale per crescere, lo sanno anche tanti italiani. Poi, ovviamente, ha aiutato il percorso fatto dai pionieri tedeschi in NBA, Detlef Schrempf prima e Nowitzki poi. Hanno avuto un impatto notevole sulle generazioni successive».

Flop a stelle e strisce

A fare da contraltare al trionfo tedesco, c’è il fallimento degli Stati Uniti. Solo quarti. «Sinceramente - confessa Pratesi, esperto di basket americano - credevo che con Kerr e Spoelstra in panchina certe lezioni del passato fossero state assimilate. Il Mondiale in Cina di 4 anni fa fu un flop storico: settimo posto. Vennero sconfitti dalla Francia nei quarti e dalla Serbia nella finalina di piazzamento. Stavolta di gare ne hanno perse addirittura tre, contro Lituania, Germania e Canada. Significa che non erano all’altezza. Possono capitare gli episodi sfavorevoli, la partita storta, le percentuali negative. Ma non hanno perso per questo. Nelle tre sconfitte hanno concesso sempre almeno 110 punti. Una cosa folle per una squadra che ha quei mezzi atletici e difensivi. C’è stata una totale incapacità di adattamento a una pallacanestro che è completamente diversa da quella NBA. Sia come regole, sia come interpretazione del gioco. La NBA di oggi è molto più atletica che fisica. E ai Mondiali gli USA sono stati presi a mazzate proprio sotto i tabelloni. Non difendevano il ferro. Sono stati distrutti a rimbalzo. Hanno sofferto un basket FIBA che non prevede il limite dei 3 secondi in area difensiva e in cui i lunghi campeggiano sotto canestro. Ma c’è un altro aspetto: le squadre europee giocano coralmente, mentre quelle NBA sono abituate all’uno contro uno, puntando sull’uomo franchigia. C’è una cultura sportiva diversa: l’America, anche a livello sociale, è molto più individualista. Infine, ho visto un’attitudine da campetto, di chi non si rende conto di cosa sta rappresentando. Non ho visto l’attaccamento alla maglia che è invece emerso in altre squadre. Ad esempio mi ha fatto piacere vedere Luka Doncic dare tutto fino alla fine per la sua Slovenia, arrivata settima».

La lezione lettone

A sublimare il gioco di squadra è stata la Lettonia, incredibile quinta: «Non a caso Banchi è stato eletto miglior allenatore del Mondiale. Seppur priva di Porzingis, il giocatore simbolo della nazione, la Lettonia ha dimostrato una volta di più che a livello internazionale non conta la somma dei talenti individuali, ma la coralità».

E l’Italia? «Più che sufficiente. A me - conclude Pratesi - resta l’amarezza per l’umiliante sconfitta di 37 punti contro questi USA. Che non erano il Dream Team. Alcuni azzurri hanno peccato di personalità in una gara che valeva le semifinali. Non dovevamo permettergli di prenderci in giro».

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