La parola agli ex: «È il momento giusto, prima di un domani che un po’ spaventa»
Trent’anni. Sono trascorsi trent’anni da quel Mondiale. Trovammo l’America e da lì in poi la Svizzera non fu più la stessa. Il digiuno - lunghissimo - era stato spezzato. Potevamo infine ritenerci una nazione di calcio. Grazie a Roy Hodgson in panchina e a una «generazione d’oro», la prima, con la quale è stato bello immedesimarsi. A USA ’94, fra quei giocatori, c’era anche Adrian Knup. Ed è con lui che proviamo a dipanare un filo che il tempo ha reso sempre più spesso e resistente. Sino a oggi, giorno del debutto della Nazionale a Euro 2024. «Sul momento non realizzammo la portata dei nostri risultati» osserva Knup, autore della doppietta che - dopo il pareggio con gli Stati Uniti all’esordio - ci permise di battere 4-1 la Romania di Hagi. «Con il giusto distacco, invece, è evidente che da quel torneo prese vita una nuova era per il calcio elvetico. Come pure un differente modo di concepire e fruire della disciplina da parte della popolazione».


Il ruolo di Hansruedi Hasler
Da allora, prosegue l’ex attaccante, «molte cose sono cambiate. E non solo in Svizzera. La Coppa del mondo del 1994, ad ogni modo, favorì un diverso sviluppo dei talenti. E il merito va altresì ricondotto ad Hansruedi Hasler, primo direttore tecnico nominato dall’ASF. L’idea dei partenariati rivoluzionò il sistema della formazione». Mentre in precedenza, il percorso dello stesso Knup, di Sforza, Chapuisat e Sutter «costituì un esempio e diede fiducia a tanti giovani che sognavano di giocare all’estero» rileva il nostro interlocutore. Il regolamento pre-sentenza Bosman, d’altronde, permetteva ai club di schierare al massimo tre stranieri. Cosa che fece lo Stoccarda con Knup. «Se questo statuto mi mise maggiore pressione a USA ’94? In realtà sono stato un calciatore che la pressione amava infondersela da solo. È chiaro che militare in Bundesliga, dove ritmo e qualità erano nettamente superiori, ci pose in una situazione particolare all’interno della rosa. Ma in un senso positivo, nella misura in cui i compagni si ritrovarono nella condizione di ambire a nuovi limiti e comprendere se ne fossero all’altezza». Oggi tutto questo appare normale. La differenza, all’interno dello spogliatoio svizzero, è semmai stabilita dal livello del club estero a cui si appartiene nel 90-95% dei casi. «E se guardo a elementi come Xhaka, Akanji e Sommer - ai rispettivi traguardi, alla loro consapevolezza -, beh, sento di poter dire che siamo all’apice» afferma Knup, che sino al 2023 ha coordinato la U21 elvetica e quindi conosce tempi e strumenti necessari per costruire una generazione di vincenti. «Meglio di così sarà difficile. Il momento per compiere un vero exploit, trascinati da questi leader, è arrivato. Dopodiché credo che per uno o due grandi tornei dovremo accettare di convivere con una Nazionale di minor successo».


Il 2011 e i suoi impulsi
Una soluzione a questo rebus, almeno inizialmente, fu chiamato a ricercarla pure Michel Pont, dal 2001 al 2014 assistente della selezione maggiore. Con Köbi Kuhn prima e Ottmar Hitzfeld poi. Tra l’Europeo del 1996 ed Euro 2004, infatti, si creò un vuoto sul piano della resa e pure della conduzione. «C’était le bordel» sintetizza il tecnico di Carouge. «Dopo sei mesi di osservazione, e già sicuri di non prendere parte al Mondiale, a inizio 2002 formammo un gruppo con un obiettivo superiore ai risultati: andava ricreata la giusta predisposizione verso la maglia rossocrociata e - di riflesso - bisognava responsabilizzare i giocatori prescelti». Il lavoro iniziato nel 1994, né più né meno, rischiava di essere buttato all’aria. «Il perfezionamento sul piano della formazione, delle competenze e delle infrastrutture passa anche dalla partecipazione ai grandi tornei» rammenta al proposito Pont. «Kobi Kühn, come il sottoscritto, proveniva dalle selezioni giovanili. E questa sensibilità ci spinse a ritenere cruciale pure un riavvicinamento con la gente. Per tornare a essere da esempio. Decidemmo quindi di obbligare i giocatori a firmare autografi, aprimmo gli allenamenti al pubblico. Puntavamo all’osmosi tra Nazionale e Nazione».
Non è stato semplice. «Come ogni ripartenza» rileva Pont. «Le forti personalità della rosa, compresa quella di Murat Yakin, la presenza di emblemi come Chapuisat e una diversità di origini già marcata, favorirono però il ritorno al discorso avviato nel 1994». Insomma, riaffiorò l’ambizione. Incrociandosi con Euro 2004 e una nuova, promettente nidiata: Vogel, Magnin, Cabanas, Frei, giusto per fare qualche nome. «E senza una profonda presa di coscienza e il rispetto della filosofia dettata dallo staff, vi assicuro che lo spareggio con la Turchia per accedere ai Mondiali del 2006 sarebbe finito diversamente» indica Pont. Quale la tappa successiva? «Nel 2011 - spiega - a innestarsi su delle basi oramai solide furono i vari Rodriguez, Xhaka, Shaqiri, la cosiddetta seconda generazione, le cui storie personali si sono tradotte in calciatori senza alcun complesso d’inferiorità. Parliamo di giocatori con oltre 100 presenze in rossocrociato. Euro 2024 dev’essere il loro Europeo. L’Europeo dei giocatori, dei trascinatori, indipendentemente dall’allenatore».


«Il livello di alcuni non basta»
A guidarli e accompagnarli, per un lungo pezzo di cammino e con la fascia al braccio, è stato Stephan Lichtsteiner. «E il fatto di aver trasformato l’accesso ai grandi tornei in una costante ha inevitabilmente accresciuto le aspettative verso la Svizzera». Già. L’asticella, tuttavia, venne alzata soprattutto dal Mondiale del 2014. «Per come interpretammo il torneo e spaventammo l’Argentina, certo» conferma Lichtsteiner: «Credo però che a dimostrare la nostra forza, a suggerire che la Svizzera era pronta per un ulteriore passo avanti, fu il cammino nelle qualificazioni. Senza sconfitte e con un gioco infine dominante. Insomma a contare, in questa evoluzione, è stato anche il modo». Un modo, ancor prima che in Nazionale, coniato nei principali campionati europei. «E ora ci presentiamo a Euro 2024 con un DNA vincente spalmato su più giocatori rispetto al passato» evidenzia Lichtsteiner. «L’auspicio è che questo valore aggiunto e queste esperienze di successo riescano a essere tramandate alla nuova generazione. Non nego, al proposito, di avere un po’ paura. Guardando al rendimento dei club svizzeri nelle competizioni internazionali ravviso delle difficoltà. Mentre per elementi come Vargas e Amdouni è giunto il momento di imporsi a livelli più alti. Perché la classe 1991, 1992 e 1993, presto mollerà la presa».