Le cento vite dell’Avvocato, dalla guerra alla sua Juve

«Agnelli ha sempre avuto il pallino degli affari. A sedici anni il nonno gli regalò 1.000 lire con le quali Gianni comprò tre mele che rivendette a 1.300 lire. Quindi investì questo nuovo capitale per comperare cinque mele che rivendette a 2.000 lire, subito reinvestite in sei mele che gli fruttarono 3.000 lire. A questo punto, quando stava per acquistare dodici mele per ricavarne 5.700 lire, improvvisamente, grazie ad una congiuntura favorevole del mercato, morì suo padre lasciandogli in eredità centomila miliardi».
La battuta – firmata Gino e Michele – è senz’altro efficace, e porta in sé una bella fetta di verità. Sarebbe però disonesto attribuire il successo di Gianni Agnelli, nato proprio cent’anni fa, unicamente a quel clamoroso colpo di fortuna. Non sono pochi infatti quelli che, ritrovatisi padroni di incalcolabili fortune familiari, hanno bruciato in pochi anni anche l’ultimo centesimo. Oltre al culo, dunque, serve il cervello, dote che al Nostro non è mai mancata.
Il ricordo di Agnelli, scomparso nel 2003, potrebbe riempire un intero quotidiano, perché l’Avvocato troverebbe spazio – a buon diritto – nelle pagine di economia come in quelle culturali, negli inserti politici e in quelli di costume. E, come vedete, nelle rubriche a sfondo sportivo. Dal nonno fondatore della FIAT, infatti, non ereditò soltanto quattrini e nome di battesimo, ma pure la passione per le attività deputate a ricreare corpo e spirito.
L’esperienza bellica
Sulla nascita fortunata e i privilegi che ne derivarono, dicevamo, non v’è dubbio alcuno, ma ciò non ha preservato il rampollo dal subire dal destino alcune batoste, come la tragica morte del padre, falciato dall’elica di un idrovolante quando lui aveva soltanto 14 anni. O dal sottrarsi al dovere quando la patria lanciò il suo appello. Agnelli, invece di imboscarsi come avrebbe facilmente potuto, partì per il fronte. E fece la guerra vera – Russia, Libia e Tunisia – tornando decorato e zoppo dalla gamba destra. Fuori discussione però fu anche l’intelligenza, di cui il giovane Gianni iniziò ben presto a dar prova. Alla morte del nonno si ritrovò, ventiquattrenne, laureato in giurisprudenza e titolare di un patrimonio incommensurabile. Ma, invece di lanciarsi nella gestione diretta di quell’impero smisurato, lasciò che ad occuparsene fossero persone capaci e fidate. Piazzare le persone giuste nei posti giusti, del resto, fu una strategia a cui fece ricorso lungo tutta la sua intensa vita, negli affari come nello sport. I soldi ce li avrebbe messi comunque, ma si sarebbe liberato del peso delle decisioni, riservandosi oltretutto facoltà di criticare qualora le cose non fossero andate nel verso giusto.
Charme e amicizie eccellenti
Consegnata la gestione della FIAT all’abile Vittorio Valletta, si dedicò con impegno encomiabile a recuperare il tempo perduto sotto le armi. E prese a godersi la vita, con tutti gli agi che il censo gli riservava. Perfezionò doti che già possedeva per natura – come charme, sense of humour e savoir-faire – e coltivò amicizie eccellenti, ad esempio col banchiere David D. Rockefeller e col futuro presidente Kennedy. Ma, soprattutto, si accompagnò alle donne più in vista del jet set, fra cui una ex nuora di Winston Churchill: schiacciando troppo sul gas per raggiungerla al più presto a Montecarlo, mandò il suo bolide a schiantarsi contro un camion, ricavandone una nuova frattura alla gamba destra. Il rischio di amputazione non gli fece comunque perdere il gusto per motori e bellezze da copertina. E nemmeno per lo sport, a cui era stato educato soprattutto dalla famiglia di sua madre – americana – da cui aveva ereditato l’amore per aristocratiche attività quali la caccia, la vela e lo sci, ma anche per una disciplina che nel corso degli anni era divenuta sempre più proletaria, cioè il football.
L’amore per la Vecchia Signora
A 26 anni divenne presidente della Juventus – da tempo proprietà di famiglia – riportandola al vertice del calcio italiano grazie all’innesto dei danesi John Hansen, Praest e Karl Hansen, mattatori di una squadra considerata fra le migliori della storia del club. Messa un minimo la testa a posto, matrimonio e incarichi di maggiore responsabilità in FIAT lo indussero a cedere la guida dei bianconeri al fratellino Umberto – appena maggiorenne – del quale sarà comunque tutore e consigliere. E, grazie a Boniperti, Sivori e John Charles, furono altri trionfi. Cultore dell’arte e del senso estetico, Gianni Agnelli non rimase certo insensibile alla classe funambolica del numero 10 argentino e dei suoi eredi Platini e Del Piero, ma intelligente com’era non fece mai l’errore di trascurare altri aspetti altrettanto importanti, specie nei periodi socialmente più caldi. E così fece venire dal Sud calciatori come Furino, Causio, Anastasi e Cuccureddu per ammansire e inorgoglire le decine di migliaia di operai scontenti che faticavano a Torino nelle catene di montaggio del Lingotto, di Mirafiori e dell’enorme indotto dell’automobile. E quando le maestranze in cassa integrazione si incazzarono ancor di più, ritenne immorale scucire una paccata di miliardi per acquistare Maradona e rinunciò a togliersi lo sfizio.
L’amore per la Juve accompagnò l’Avvocato fino a scavallare la soglia del nuovo millennio. E, finché poté, sedette al proprio posto in tribuna, qualche volta accompagnato da Henry Kissinger, amico fraterno, Nobel per la pace e già segretario di stato USA. Fra i vezzi plebei di Agnelli, c’era la lettura di Hurrà Juventus, periodico destinato ai tifosi della Vecchia Signora alla testa del quale aveva nominato uno sfegatato supporter del Torino! Parliamo di Gian Paolo Ormezzano, giornalista formidabile, che di quella pubblicazione produceva – sotto pseudonimo ça va sans dire – quasi tutti gli articoli, e che spesso veniva invitato in Villa quando all’Avvocato servivano dritte sui giocatori di cui si invaghiva e che voleva alla Juve.
Dal Sestriere al Piz Nair
Ma non solo di calcio vive l’uomo, specie se sei ricco come Creso. E soprattutto se tuo nonno, dopo essersi inventato il Sestriere, ingaggia i migliori maestri d’Europa per insegnarti lo sci e farlo diventare la tua passione più longeva. Educato alla pratica sulle nevi di casa, l’Avvocato batté fino in tarda età tracciati e fuoripista dei comprensori più prestigiosi del pianeta, con particolare predilezione per quelli engadinesi: dalla sua magione al Suvretta faceva infatti la spola in elicottero verso il Piz Nair, dove nel febbraio del 1981 fu travolto da alcuni pirati delle nevi e ci lasciò tibia e perone, stavolta della gamba mancina. Negli ultimi anni, impegnato a combattere un tumore, Agnelli si allontanò dagli affari, ma continuò a coltivare il mecenatismo e determinante fu il suo contributo affinché Torino e le sue montagne potessero ospitare le Olimpiadi del 2006. Non fece in tempo a vederli – si spense infatti nel 2003 – ma di quei Giochi invernali fu comunque presidente del Comitato d’onore.
Prettamente estiva fu invece un’altra passionaccia dell’Avvocato, capace di stare al timone e di leggere il vento fin dalla più tenera età. Se nella vicina Penisola ancora oggi fanno le notti in bianco per seguire le sorti di Luna Rossa, gran parte del merito va proprio ad Agnelli, che 40 anni fa concesse udienza a un visionario skipper romagnolo e trovò stimolante la proposta che era venuto a fargli. Per mettere in piedi la prima rincorsa italiana all’America’s Cup servivano cinque miliardi di lire, che Agnelli raccolse con un paio di telefonate ancor prima che Cino Ricci prendesse congedo. A una delle chiamate rispose l’Aga Khan Karim, che oltre a garantire la sua quota in contanti acconsentì pure che a lanciare ufficialmente la sfida fosse lo Yacht Club Costa Smeralda, di cui era presidente e che, fra i soci, contava appunto l’Avvocato. Qualche mese più tardi, in un cantiere pesarese venne varata Azzurra – scafo futuristico capace di sfiorare il miracolo nelle acque del Rhode Island nel 1983 – ma soprattutto in grado di accendere la passione per la vela fra gli italiani, che popolo di navigatori non erano più da un pezzo. Azzurra, in quegli anni così complicati per il Paese, divenne nel mondo sinonimo di italianità vincente, come i maglioni di Missoni e le giacche di Armani.
La sola Testarossa cabrio
O come i propulsori Ferrari, al cui fascino Gianni Agnelli non seppe mai resistere, tanto da commissionare agli ingegneri di Maranello – suoi dipendenti dal 1970 – più di un modello personalizzato. Fra questi, l’unica Testarossa cabrio della storia, che montava pure un dispositivo per la conversione dal cambio manuale a quello automatico: il malconcio piede sinistro dell’Avvocato non era più in grado di pigiare troppo a lungo sulla frizione, e serviva qualcosa che gli consentisse di farlo riposare ogni tanto. Pare che Agnelli ne avesse chieste due: danno un muletto perfino ad Alboreto – si sarà detto – perché mai dovrei rinunciare proprio io alla vettura di riserva? Forse temeva di ammaccarne una, come ai bei tempi, recandosi a un appuntamento galante. Magari con Dalila Di Lazzaro – sempre sia lodata – con la quale si dice che l’Avvocato, proprio in quegli anni, avesse un affaire. Alla fine, ad ogni modo, dovette accontentarsi di un unico esemplare.
La fiducia in Montezemolo
Alla scuderia del Cavallino rampante Agnelli diede in cambio un dirigente di razza, cioè Luca di Montezemolo, che dapprima contribuì ai trionfi di Niki Lauda e poi, alla sua seconda esperienza a Maranello, mise la firma sull’epopea di Schumi. L’Avvocato sbagliò però con Montezemolo quando gli affidò la Juventus. Invidioso di Berlusconi che con Sacchi aveva trionfato dando spettacolo, il manager pensò bene di liquidare Dino Zoff – fresco vincitore di Coppa Uefa e Coppa Italia con una squadra operaia – per dare la panca bianconera all’emergente Gigi Maifredi, che prometteva miracoli ma che ad Arrigo si dimostrò superiore soltanto nel saper scegliere il vino.