«Le mille sfide in Formula Uno e quelle telefonate di Schumi»
È nato a Ferrara, si è laureato al Politecnico di Torino e dal 1988 al 2009 ha lavorato per la Ferrari, dapprima come ingegnere di pista e poi come dirigente. Ha collaborato con campioni del calibro di Alain Prost, Michael Schumacher e Kimi Räikkönen e vinto otto Mondiali costruttori e sei piloti. Nel frattempo, ha co-creato la Sauber, per poi diventare trainer aziendale. Luigi Mazzola racconta le grandi tappe della sua vita.
Signor Mazzola, la sua è stata una grandissima carriera che è cambiata più volte toccando vari ambiti. Molti di questi sono però legati al mondo della Formula Uno. Rompiamo dunque il ghiaccio con una domanda di rito tra appassionati. Cosa ne pensa dell’andamento del Mondiale in corso?
«Innanzitutto direi che sono molto contento: il nuovo regolamento ha praticamente fatto sì che in pista si veda tanta diversità tra le auto. I primi test di Barcellona hanno mostrato macchine di categorie quasi diverse, tanto era differente il livello. Questo certamente piace al pubblico e agli ingegneri. Questa è la prima grande novità. La seconda è il ritorno della Ferrari dopo gli anni sabbatici utilizzati per ripartire forte nel 2022. A mio modo di vedere è stata una mossa vincente, perché il Cavallino ora ha la macchina migliore. L’ultima componente che inserirei per completare il quadro, è la bravura della Red Bull che, malgrado abbia lottato fino all’ultimo l’anno precedente con la Mercedes, è riuscita a riproporre un’auto vincente anche quest’anno. Impresa che invece ha fallito la Scuderia di Hamilton. Ciononostante, per fortuna è rimasta la battaglia tra piloti, a questo giro tra Leclerc e Verstappen».
Restiamo ancora per un momento sul campionato corrente. Okay il ritorno spaziale della Ferrari, condito però da qualche errore di troppo. Il più recente lo si è visto al box di Charles Leclerc al GP di Monaco.
«Secondo me, alla base di questi errori, c’è un problema che io definisco strutturale. Il team di pista del Cavallino è molto forte quando c’è continuità. Nel momento in cui però un aspetto muta, la Ferrari accusa qualche problema. Ecco cos’è successo a Monaco. Nei giorni delle prove e delle qualifiche c’era il sole e la pista era asciutta. La Rossa ha dunque mostrato tutte le sue capacità. Il giorno della gara invece pioveva, tutti hanno montato le “extreme wet” e si è partiti con la safety car. Poi la pista però si è asciugata, Perez è andato ai box e la Ferrari ha evidenziato le sue pecche. Il problema consiste anche nel fatto che c’è sempre più tecnologia in ballo, ma quando deve per forza uscire l’aspetto umano, la Scuderia di Maranello non sempre reagisce nel migliore dei modi, creando una situazione critica. Essendo partita con due macchine in prima e in seconda posizione, finire con un 2. e un 4. posto è una sconfitta».
Facciamo un salto indietro nel tempo di 34 anni. Quando, nel 1988, lei diventò ufficialmente ingegnere di pista della Ferrari. Un sogno che si avvera?
«Proprio così. Sin da adolescente il mio desiderio più grande era quello di lavorare a contatto coi piloti. Avevo chiaro in mente che sarei diventato ingegnere di pista. Per riuscirci ho fatto tanti sacrifici. Mi serviva la facoltà di costruzioni automobilistiche per arrivare dove volevo e così sono partito. Sono andato a studiare a Torino senza un soldo, partendo da Roma, dove abitavo coi miei genitori. Il primo giorno in Ferrari non lo scorderò mai. Il mio cammino a Maranello è iniziato come meglio non poteva, collaborando con Alain Prost, allora tre volte campione del mondo. La Ferrari aveva scelto me come ingegnere di pista, nonostante fossi praticamente un neolaureato. Avevo 26 anni. Il mio lavoro? Essere il punto di riferimento del pilota. Ero colui che doveva rendere la macchina più veloce, dialogando con chi era al volante per capire come migliorarla. E i piloti sono molto severi su questo, vogliono sempre l’auto più veloce. Ero anche colui che curava l’affidabilità e il montaggio della vettura, dunque gestivo anche i meccanici e gli ingegneri. Questo lavoro nel tempo è mutato, perché sono nate tante specializzazioni».
In mezzo al periodo alla Ferrari c’è stato il capitolo Sauber. Una bellissima sfida dai colori rossocrociati. Com’è stato lasciare la scuderia del Cavallino per buttarsi in un’impresa nuova?
«Il capitolo Sauber è stato per me una sfida tremenda. Parliamo degli anni 1992-1993. Io avevo appena compiuto 29 anni. Da così giovane sono entrato in un team dove ero praticamente l’unico con esperienza in Formula Uno. C’erano degli ottimi tecnici, però non conoscevano il mondo della F1. In questo senso è stato anche un periodo divertente: mi ha permesso di trasferire tutte le mie conoscenze alla Sauber. Sarei rimasto a Zurigo se la Ferrari non avesse forzato la mano per farmi tornare. Anche perché in quegli anni è nata mia figlia, dunque mi trovavo bene in Svizzera».
Appunto. Nel 1994, lei è tornato a Maranello, voluto a tutti i costi da Montezemolo. Che ruolo ha ricoperto una volta rientrato alla Rossa?
«Mi sono sempre più spostato verso il mondo dei test. Con l’allora direttore generale Jean Todt, concordammo che bisognava avere una squadra chiamata a gestire nell’ombra tutto lo sviluppo della macchina. Presi dunque in mano il progetto. Nel 1995 eravamo in cinque, poi, negli anni 2000, siamo arrivati fino a 300. Questo lavoro ci permise di girare con tre macchine contemporaneamente, talmente era forte la task force».
Dopo questa esperienza di qualche anno, la sua carriera è nuovamente cambiata, portandola a occupare un ruolo molto importante.
«Sono stato nominato dirigente abbastanza presto, ma in questo mondo le cose viaggiano in fretta. Questo nuovo capitolo mi ha imposto di iniziare a lavorare di più su di me per migliorare le mie competenze trasversali: leadership, comunicazione, gestione, intelligenza emotiva... Sono diventato un coach alla fine degli anni ‘90, quando ancora questo termine non veniva usato. Pur lavorando in Ferrari ho iniziato a fare corsi, anche in America, per ampliare le mie conoscenze. Essere un coach prevede che si sappia gestire le relazioni umane e motivare i propri collaboratori. Da esperto di competenze tecniche, sono diventato esperto di competenze trasversali».
Arriviamo così alla conclusione del capitolo relativo al mondo della Formula Uno, vissuto in prima persona, per spostarci altrove. Siamo nel 2009. Cosa successe alla sua carriera professionale?
«Cambiai totalmente strada. Presi un foglio bianco e ricominciai da capo. Diventai trainer aziendale e speaker motivazionale, operando in tutta Italia e in Ticino. Tutto il bagaglio che ho accumulato negli anni, mi ha aiutato tantissimo a svolgere il lavoro che faccio oggi. Anche aver collaborato a stretto contatto con delle stelle dello sport è stato incredibilmente arricchente. E non parlo solo di piloti, ma di sportivi in generale e manager: Michael Schumacher, Alain Prost, Ayrton Senna, Valentino Rossi, Novak Djokovic (tramite il coaching), Jean Todt, Montezemolo e Roos Brawn. Tutti mi hanno aiutato a vedere i vari sbagli che si possono commettere, i miei in primis, così da potersi sempre migliorare. Lavorare con questi campioni è stata la mia fortuna, perché ho potuto capire a fondo tanti aspetti del comportamento umano. Nel loro caso, per esempio, cosa sta dietro agli atleti e come mai sono così bravi. Ho accumulato un grande background che ora trasferisco alle aziende».
Una carriera costellata da cambiamenti e novità, dunque. Le soddisfazioni non sono mancate. Dovesse scavare nella memoria e sceglierne una in particolare?
«In 10 anni abbiamo vinto 14 titoli con la Ferrari, dunque di soddisfazioni ve ne sono state tante. Ma i momenti più preziosi erano le chiamate dei campioni, come quelle di Michael Schumacher, quando, la sera dopo aver vinto un Gran Premio, mi telefonava per farmi i complimenti per tutto il lavoro svolto. Ricevere un riconoscimento per tutti i sacrifici (che erano davvero tanti) era qualcosa di grande valore. Ora le soddisfazioni arrivano in modo diverso. Quando a 46 anni ho lasciato il mondo della Formula Uno, volevo trovare un lavoro che mi desse lo stesso appagamento del mondo che avevo appena lasciato. Ho dovuto dunque cercare i miei valori, trovando un’attività che è la fotocopia di quella che facevo in passato, anche se in modo diverso. Vedere persone che, durante i miei discorsi, sono totalmente coinvolte è una soddisfazione incredibile. Ho 60 anni, ma ho l’energia di un 30.enne. Non perché abbia un DNA particolare, ma perché faccio un’attività che mi appassiona».