Lutto mondiale per la morte di Kobe Bryant e della figlia Gigi

(Aggiornato) Kobe Bryant, 41 anni, è morto oggi, domenica 26 gennaio, in un incidente di elicottero a Calabasas, in California, alle 10 del mattino, ora locale, le 19 in Svizzera, mentre si recava alla Mamba Academy, l’accademia di basket fondata dal campione, per una mattinata di allenamenti. A bordo era presente anche la figlia, Gianna Maria, di 13 anni. La conferma ufficiale è arrivata dalle autorità cittadine.
Incredulità, lacrime, messaggi da ogni parte del pianeta. Il mondo del basket piange uno dei suoi più grandi interpreti, dentro e fuori il parquet. Kobe Bryant, stella della NBA e dei Los Angeles Lakers dal 1996 al 2016, ha perso la vita a 41 anni in un incidente di elicottero avvenuto poco prima delle 10 locali a Calabasas, nel sud della California.
Come hanno confermato le autorità, Bryant era a bordo del suo elicottero privato con altre sette persone, oltre al pilota. Tutti i nove occupanti sono morti. Tra le vittime c’è anche la figlia tredicenne di Kobe, Gianna Maria, giovane promessa della pallacanestro. Stando ad alcuni media locali, l’elicottero si stava dirigendo alla Mamba Academy, l’accademia di basket fondata dal campione, per una mattinata di allenamenti con la bambina. Gianna Maria era la seconda di quattro figlie avute da Kobe con la moglie Vanessa. L’ultima, Capri Kobe, è nata lo scorso mese di giugno.
Condizioni di volo difficili
Il Los Angeles Times parla di condizioni meteo particolarmente difficili, con una fitta nebbia a disturbare la visibilità del pilota. Il velivolo, decollato da pochi minuti, ha improvvisamente perso colpi, schiantandosi su una zona collinosa e boschiva. Mentre i soccorsi erano ancora in azione, tra un fumo denso e le fiamme, Tmz ha diffuso la notizia che ha fatto presto il giro del mondo, parlando inizialmente di cinque vittime, poi salite a 9. Le autorità hanno aperto un’indagine sulle cause che hanno provocato l’incidente.
La NBA non si è fermata
Rapidamente diffusasi quando da noi erano quasi le 21, la notizia ha sconvolto ex compagni e avversari, tifosi ed atleti di ogni disciplina. La fama di "Black Mamba", come era soprannominato, andava ben oltre un campo di basket. Anche il presidente Donald Trump ha commentato via Twitter: "Una terribile notizia!". Una folla di tifosi si è radunata davanti allo Staples Center di L.A.
Ieri la NBA non si è fermata. Nella gara tra Toronto e San Antonio, i Raptors hanno vinto la palla a due e hanno lasciato scorrere il cronometro per 24 secondi in onore di Bryant: il numero 24 era infatti quello da lui indossato unitamente all’8. I Denver Nuggets e gli Houston Rockets non volevano scendere in campo, ma non sono arrivate indicazioni da parte della lega e la partita è cominciata dopo un minuto di silenzio. Tyson Chandler dei Rockets si è messo a piangere mentre il pubblico urlava il nome di Kobe.
LeBron James e il destino
Nato a Philadelphia il 23 agosto del 1978 e ritiratosi nel 2016, per vent’anni Kobe Bryant è stato un simbolo dei mitici Los Angeles Lakers, con i quali ha vinto cinque titoli NBA: 2000, 2001, 2002, 2009 e 2010. Faceva parte dei sette giocatori ad aver superato la soglia dei 30 mila punti in carriera in NBA e proprio sabato era stato scalzato dal podio da LeBron James, attuale stella dei Lakers. Sedici ore prima della tragedia che lo ha portato via per sempre, Kobe si era congratulato su Twitter con il grande amico: "Continui a far avanzare il nostro sport, ho grande rispetto per te, fratello mio". Sabato, durante la cerimonia del sorpasso, "King James" aveva a sua volta celebrato la grandezza di Kobe: "Offensivamente era immortale per la sua attitudine e per la sua etica. Ed ora eccomi qui, nella sua Philadelphia e con la sua stessa maglia dei Lakers. A volte l’universo si diverte a fare strani scherzi". LeBron non poteva immaginare cosa avesse in serbo il destino.
Un sorriso invincibile
Cinque titoli NBA, due ori olimpici (2008 e 2012) e milioni di fan in tutto il mondo, ammaliati anche dal suo sorriso. Bryant era tutto questo. È stato l’erede perfetto di Michael Jordan, che di anelli ne ha messi in bacheca sei. Basta questo a far capire chi fosse quel bambino che papà Joe, a lungo giocatore in Italia, chiamò Kobe perché andava pazzo per quel tipo di carne giapponese, "di una tenerezza incredibile". Sul campo non aveva rivali, al punto da far tornare all’antica grandezza, quella dei tempi di "Magic", i Lakers, la squadra che lo prese quando era ancora un liceale. Sotto la guida del guru Phil Jackson, già artefice dei trionfi di Chicago, e pur non andando sempre d’accordo con l'altra superstar Shaquille O’Neal, ha trascinato i gialloviola, allenandosi anche di notte e giocando come da bambino: voleva sempre la palla e raramente sbagliava una mossa, come quando segnò 81 punti contro Toronto. Quando si è ritirato nel 2016 i Lakers gli hanno riservato una serata speciale e ritirato le due maglie 8 e 24. Kobe si emozionò quando Magic Johnson sottolineò che era proprio Bryant, e non lui, il più grande nella storia del team californiano.

