«Michael Jordan, i Bulls e quell’ultimo grande ballo»

La fame di NBA è stata saziata da Netflix, che lunedì ha reso disponibili i primi due episodi di The Last Dance, la docuserie in dieci puntate dedicata a Michael Jordan e ai Chicago Bulls del 1997-98, quelli del sesto titolo. Ne parliamo con Federico Buffa, noto narratore di sport e di basket.
Signor Buffa, ha visto i primi due episodi della serie?
«Aspetto che siano tutti disponibili per gustarmeli uno dietro l’altro, ma conosco alcuni retroscena del documentario. Tutti sapevano che la stagione 1997-98 sarebbe stata l’ultima per quella squadra eccezionale, tant’è che fu l’allenatore Phil Jackson, ad inizio campionato, a darle il nome di ‘‘The Last Dance’’, l’ultimo ballo. La NBA s’apprestava ad assistere all’ultima replica di un grandissimo spettacolo e c’era il desiderio di documentarlo giorno per giorno. Per questo esiste così tanto materiale video».
I Bulls vennero seguiti da una troupe televisiva per tutta la stagione. Dove sono rimasti nascosti quei filmati fino ad oggi?
«Mi ricorda quanto è successo ad un altro celebre documentario sportivo, Quando eravamo re, dedicato al match di pugilato più famoso della storia, quello del 1974 a Kinshasa tra Muhammad Ali e George Foreman. Il film vide la luce soltanto 22 anni dopo, nel 1996. Perché ci volle così tanto? Semplice: per una questione di diritti. Con i Chicago Bulls di The Last Dance è capitata la stessa cosa. Michael Jordan, per geniale intuizione del suo manager David Falk, fu il primo atleta della storia a diventare un brand. Da una parte abbiamo dunque la NBA, che detiene i diritti sulle partite, dall’altra Jordan, titolare dei diritti sulla sua immagine. L’allora presidente della NBA Entertainment, Adam Silver, oggi commissioner della lega, si accordò con Falk in questi termini: nessuno avrebbe potuto utilizzare quel materiale senza l’autorizzazione dell’altro».
Ci sono voluti 22 anni...
«Finalmente sono maturate delle circostanze favorevoli. L’uscita era inizialmente prevista a settembre, ma l’attuale momento storico, con la NBA ferma per coronavirus, ha anticipato i tempi. A campionato in corso non sarebbe stato immaginabile trasmettere la serie, perché l’effetto Jordan avrebbe cannibalizzato l’intera NBA. Di nuovo. Come nel 1993, quando si ritirò per la prima volta: Michael era diventato più importante della lega stessa ed era fisiologico che si prendesse una pausa, poi durata 17 mesi. Oggi, nonostante MJ abbia smesso di giocare da un pezzo, una serie tv così importante avrebbe fatto passare le partite in secondo piano».
Federico Buffa raccontò Michael Jordan in un monologo trasmesso da Sky. Attorno a cosa costruì quel testo tanto apprezzato?
«Sapevo che sarebbe stato il mio ultimo contributo di basket per Sky. Dunque entrai in sala di registrazione e la feci tutta dritta: 70 minuti senza fermarmi. Una flusso di coscienza che scorreva per conto suo. Avevo seguito quell’uomo per 20 anni e raccontare la sua storia attraverso una serie di pensieri mi venne naturale. Credo che lo abbiano montato bene, ma non l’ho mai visto».
Qual è il suo aneddoto preferito su Jordan?
«Estate del 1995: Michael sta rientrando nella NBA, ma nel frattempo deve anche girare il film Space Jam. Sul set si fa dunque costruire un tendone dove allenarsi. Su sua richiesta, ogni mattina gli vengono sfornati dei dolcetti alla cannella. Un giorno, vedendo della gente aggirarsi attorno a quelle delizie, Jordan ne mangiò due e leccò tutte le altre. Era sazio, ma per una questione di principio non voleva che gli altri toccassero i suoi dolci. Mi ricordai di questo episodio osservando l’azione che decise gara-6 delle Finals 1998 contro gli Utah Jazz: Jordan rubò palla a Karl Malone, facendo capire a tutti che quella era roba sua, proprio come i dolcetti alla cannella. Nei 24 secondi successivi, infatti, la palla non la toccò più nessuno, fino al tiro che decise il campionato. Jordan provava una sensazione di onnipotenza paragonabile soltanto a quella di Ali».

Ci racconta un suo incontro personale con Michael Jordan?
«A metà anni Ottanta ero all’aeroporto di Malpensa come interprete di Enrico Campana, caporedattore alla Gazzetta dello sport. Jordan arrivava da Parigi e avrebbe poi giocato due partite in Valtellina. Era un ragazzo di 22 anni, ma aveva già una potenza magnetica. Mi è poi piaciuto, negli anni, andare a scovare le cose su cui Michael era particolarmente in difficoltà. Ad esempio, avendo rischiato di annegare da piccolo, non è mai più riuscito a fare il bagno, neanche nella vasca».
Come spiegare la grandezza di Jordan a chi non ha vissuto la sua epoca e magari non lo considera all’altezza degli idoli di oggi?
«È come il paragone tra Maradona e Messi. Un conto è il valore singolo del giocatore, che dipende anche dalle epoche, dal contesto. Un altro conto è il valore che trascende le epoche, legato alla personalità, alla capacità di essere colui che sa prendersi la responsabilità. Gli argentini hanno un’espressione meravigliosa: ‘‘Ponerse la diez’’, ossia ‘‘Mettersi la maglia numero 10’’. Tanti giocatori, nonostante le loro doti, non vivono dei momenti così, in cui dicono: ‘‘Tranquilli, ci sono io’’. Nel basket, uno sport più analitico del calcio, non legato ai ciuffi d’erba, si nota tantissimo quanto Jordan fosse superiore agli altri. C’è una frase di Scott Layden, direttore generale degli Utah Jazz, che riassume la situazione: ‘‘È incredibile che in una lega così, in cui giocano tutti i migliori del mondo, ci possa essere un giocatore così tanto più forte degli altri’’».
All’epoca di Jordan non esistevano i social network e l’odio da tastiera. Lui era amato da tutti?
«Quando un giocatore è così dominante - e non fa nulla per non fartelo notare - può svilupparsi un senso di rivalsa, una speranza di vederlo perdere, ma per fortuna all’epoca non c’era questo mondo di odio così disponibile. Ricordiamoci che Jordan, in NBA, ha perso continuamente fino al primo titolo del 1991. Non era in grado di fidarsi dei compagni e soffriva maledettamente l’idea di non vincere pur sentendosi così forte. Quando Phil Jackson arrivò sulla panchina di Chicago, convinse Jordan sulla bontà di un sistema misto: Michael avrebbe avuto i suoi assoli di sassofono, ma per la maggior parte del tempo avrebbe suonato insieme agli altri. In quel momento la sua vita cambiò. La progressione di Jordan è stupenda: vincere così tanto dopo aver perso così tanto, è una catarsi».
Il suo vero erede è stato il compianto Kobe Bryant?
«Nessuno ha cercato di replicare Jordan come ha fatto Bryant. Non ha mai voluto portare il suo numero 23, a differenza di LeBron James, ma ha modellato la sua carriera su Michael. Partiva dagli stessi concetti: una favolosa qualità sui fondamentali e una mentalità da killer. Il retaggio che Jordan ha lasciato a Kobe, e che Kobe ha trasmesso a LeBron, è la consapevolezza di avere un contratto non scritto con il pubblico e di dover dare tutto ogni sera, fino all’ultimo ballo».
"Uno straordinario cast di supporto"
Nell’intervista qui a sopra si parla soprattutto di Michael Jordan, ma i Chicago Bulls di quell’epoca (6 titoli in 8 stagioni tra il 1991 e il 1998) erano tanto altro. Lo ricorda il documentario di Netflix The Last Dance e ce lo conferma Federico Buffa: «Senza un cast di supporto non si va da nessuna parte e quello che circondava Jordan era pieno di personaggi eccezionali: ovviamente Scottie Pippen, ma anche Dennis Rodman, Steve Kerr, Tony Kukoc, prima ancora Horace Grant. Non si costruisce una simile dinastia se tutte le componenti non funzionano al meglio. È difficile trovare così tanta gente disposta a stare insieme in quel modo, sotto l’impero di un fenomeno da cui tutti hanno tratto vantaggio».
Una stagione irripetibile
Al centro della serie di Netflix The Last Dance, uscita lunedì, c’è la stagione 1997-98 dei Bulls, l’ultima di Jordan, Pippen e coach Phil Jackson. Federico Buffa la visse intensamente: «Da cronista vidi molte partite di Chicago quell’anno. Allo United Center si aveva la netta sensazione che ogni partita andasse assaporata fino in fondo, perché una cosa simile non sarebbe successa mai più».