Il personaggio

Jean Todt: «Ho ricostruito la Ferrari e puntato su Schumi»

Uno dei massimi protagonisti del motorsport ha ripercorso le tappe più importanti della sua carriera, dai successi con la Peugeot agli impegni presso l'ONU
Uno scroscio di applausi ha accolto Jean Todt nell’Aula Magna dell’Università della Svizzera italiana. © Cdt/Gabriele Putzu
Maddalena Buila
05.09.2024 20:00

Dirigente sportivo di enorme successo di Peugeot e Ferrari, 10 anni alla testa della FIA, inviato speciale per la sicurezza stradale presso l’ONU e ideatore dell’Istituto di ricerca sul cervello e sul midollo spinale. Jean Todt si è raccontato nel primo appuntamento della serie «USI incontra».

È un protagonista assoluto del panorama internazionale del motorsport. Ha lasciato un segno indelebile nel mondo dei motori, ma non solo. Dopo una vita passata nel paddock, Jean Todt ha deciso di seguire la spinta filantropica che da tempo sentiva. Un aspetto, quello dell’aiuto al prossimo, trasmessogli dal papà. È proprio da qui che il 78.enne di Pierrefort ha iniziato il suo racconto. «Mio padre era un medico e curava i suoi pazienti con grande cuore. Da giovane io avevo invece altri interessi. Ero appassionato di automobilismo e volevo diventare un pilota di F1. Jim Clark e l’americano Danny Ongais erano i miei idoli. Ho iniziato come copilota, il modo più veloce per entrare nel mondo delle competizioni. A 25 anni mi sono dato un termine: entro i 35 sarei diventato capo di un reparto corse. Altrimenti avrei fatto altro. La Peugeot puntò su di me quando spensi 35 candeline. Meno male (ride, ndr)».

Realizzare l’impossibile

Nel 1982 inizia la collaborazione con il marchio francese, all’epoca in seria difficoltà. Piano piano risale la china e porta Peugeot ai grandi successi, culminati con la vittoria della 24 Ore di Le Mans e del campionato piloti e costruttori nel 1993. Raggiunto l’Olimpo, decide di abbracciare un altro progetto. Diventando dirigente sportivo di un’altra scuderia speranzosa di issarsi al vertice, la Ferrari. «Perché questa decisione? Perché il brand più importante della F1 rimane il Cavallino (sorride, ndr). E quando la Rossa è in crisi ne risente tutto il Circus. Bernie Ecclestone era dunque alla ricerca di qualcuno che potesse risollevare le sue sorti. Sapendo di cosa ero stato capace con la Peugeot, mi contattò. Parlai con i vertici di Maranello e decisi di accettare la loro proposta. Ci fu chi mi disse che non sarei resistito più di due anni. E questo mi preoccupò un po’. Sono sempre stato un tipo ansioso (altro sorriso, ndr). È stato difficile ricostruire la Ferrari dalle fondamenta, ma non abbiamo mai mollato. Quando arrivai l’ambiente non funzionava. Ho così allestito una squadra fortissima, puntando tutto su Michael (Schumacher, ndr). Un ragazzo straordinario, che ha sempre creduto nel progetto senza mai incolpare il team in caso di insuccesso. Per tre anni, dal 1997 al 1999, abbiamo perso il campionato piloti. Poi, nel 2000, è finalmente arrivata la doppietta Mondiale piloti e costruttori». Un colpo di genio aver puntato sul fenomeno tedesco. «Veramente il pilota di maggior successo, quando arrivai in Ferrari, era Senna. Lo incontrai a Monza e mi disse di voler venire a Maranello nel 1994. Gli risposi che avevamo già due ragazzi sotto contratto. Replicò che in F1 i vincoli si rompono facilmente. Beh, non per me. Quindi andò alla Williams. Il suo grande rivale era Michael. Puntammo su Schumi, che si convinse ammirato dalla nostra grande ambizione».

Il mio metodo? Lavorare sodo e ingaggiare le figure migliori, dal receptionist al pilota
Jean Todt

In qualità di team principal della Ferrari, Todt conquista 105 gare, per un totale di sei campionati piloti (cinque con Schumacher e uno con Räikkönen) e otto costruttori. Il segreto di tale successo? Aver arruolato i migliori sul mercato. «Volevo il top in ogni ambito. Da chi puliva il pavimento, al receptionist, passando per tecnici, meccanici e piloti. Ma non basta. È come cucinare. Dopo aver preso gli ingredienti migliori bisogna combinarli alla perfezione. Lavorammo giorno e notte per creare l’ambiente di lavoro ideale. Poi scattò la magia. Abbiamo reso possibile l’impossibile».

Una pandemia silenziosa

Nel 2009 eccola di nuovo la voglia di cambiare, dopo aver vinto tutto. «In realtà mi sarebbe piaciuto partire già nel 2004. Ma mi convinsero a restare altri cinque anni come amministratore delegato. L’ho fatto con piacere, ma sentivo crescere la necessità di fare qualcosa per gli altri. Ecco perché quando venni eletto presidente della FIA nel 2009, decisi di occuparmi di migliorare la sicurezza sulle strade. Queste ultime ogni anno sono la causa di 1.2 milioni di morti e di 50mila incidenti che portano a disabilità. Io la chiamo una pandemia silenziosa. I paesi più sviluppati affrontano bene il problema. Per quelli più poveri il discorso è diverso. Infatti il 93% di queste cifre proviene dalle nazioni meno fortunate. Entro il 2030 vogliamo dimezzare i dati. Da qui è nata la mia collaborazione con l’ONU, diventando inviato speciale per la sicurezza stradale. Un ruolo che svolgo con immensa gioia. So che è qualcosa di completamente diverso da quello di cui mi sono occupato in passato, ma da qualche tempo sto esplorando nuove vie. Come quella di aprire nel 2010 l’Istituto di ricerca sul cervello e sul midollo spinale. Un progetto a cui tengo molto e che oggi conta 1.000 ricercatori impegnati, per esempio, a scoprire un rimedio contro Parkinson e Alzheimer».

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