L'intervista

«La seconda gara in Ferrari ha cambiato il mio destino in F1»

A tu per tu con l'ex pilota del massimo campionato Stefan Johansson, che oggi ha accantonato il mondo dei motori per dedicarsi alla passione per la pittura
Stefan Johansson, tra le altre, ha corso anche per le scuderie di Ferrari (1985-1986) e McLaren (1987).
Maddalena Buila
30.08.2024 06:00

È nato l’8 settembre 1956, a Växjö, in Svezia. Ha giocato a calcio e hockey, arrivando fino alla seconda divisione. Finché non è sbocciato l’amore per i motori, mai tramontato. 13 stagioni in F1, gareggiando anche per Ferrari e McLaren, una vittoria alla 24 Ore di Le Mans e l’avventura nella CART. Poi la morte dell’amico Elio De Angelis, che gli cambia la vita facendogli scoprire un’altra passione: la pittura.

Signor Johansson, come sta?
«Splendidamente, la ringrazio».

Partiamo dagli inizi. Una vita, la sua, dedicata allo sport. E non parliamo solo di motori. Tutto è infatti iniziato quando, da ragazzino, si divertiva sui campi di calcio e le piste da hockey. Che ricordi serba di quegli anni?
«Positivi. Il pallone mi piaceva, ma era il ghiaccio il mio habitat naturale. Ho persino raggiunto la seconda divisione, a un passo dai professionisti. Trovo che lo sport in generale sia un’ottima attività. Insegna la disciplina, la costanza e il prendersi cura del gruppo per raggiungere un obiettivo comune. Aver giocato a hockey si è inoltre rivelato un valido aiuto. Parliamo di uno sport aggressivo, in cui si dà tutto in pochi secondi di sforzo estremo. A 19 anni ho poi deciso di concentrare le mie forze sui motori, a cui ero maggiormente appassionato. Ecco, essere in grado di spingere a tutta in pochi minuti mi è servito molto durante le qualificazioni, quando l’unica cosa che conta è la velocità sul giro secco».

Dalla F3, alla F2, fino alla massima serie. In F1, tre le tante scuderie, ha gareggiato anche per Ferrari (1985-86) e McLaren (1987), centrando i suoi risultati migliori. C’è una corsa che ha trovato uno spazio particolare nel suo cuore?
«La seconda gara con la Rossa. Un po’ di contesto. Diventai pilota del Cavallino a metà stagione del 1985. Venni letteralmente gettato nella mischia, senza aver effettuato nessun test. Il mio compagno Michele Alboreto al momento era in testa al Mondiale. Circostanze poco idilliache per un debutto (sorride, ndr). La mia seconda corsa fu al GP di Imola. Dopo una qualifica terribile, finii 15. per colpa di un problema alla vettura che scoprimmo in seguito. In gara rimontai fino al primo posto. Ma a tre giri dalla fine il patatrac: rimasi senza benzina. La colpa? Un altro problema dell’auto. Credo che la mia carriera in F1 sarebbe stata molto diversa se avessi vinto quella corsa. Ma questa è la vita».

A Imola arrivò la prima delle sue tante top3. Fino al 2011, quando venne superato da Nick Heidfeld, ha addirittura detenuto il record del più alto numero di podi, ma senza alcuna vittoria. Per alcuni un primato poco invidiabile, per altri una grande dimostrazione di costanza. E per lei?
«Beh, è meglio salire sul podio che non esserci per nulla (sorride, ndr). Al contempo, una carriera senza vittorie fa male. Soprattutto considerato che in almeno cinque circostanze, sia con Ferrari sia con McLaren, avrei potuto trionfare. Ma così non è stato per ordini di scuderia. La F1, da questo punto di vista, è impietosa. Bisogna trovarsi al posto giusto al momento giusto. Altrimenti sfuma l’appuntamento con la gloria. Prediamo Fernando Alonso. Uno tra i più grandi piloti, ma sempre al volante dell’auto sbagliata. Parliamo di uno sport che genera anche tanta frustrazione. Ma le lamentele non sono ammesse. Bisogna godersi il momento, tenendo sempre presente che siamo dei privilegiati a poter gareggiare spingendo delle incredibili auto al limite».

Dalla F1 alla CART. Nel campionato americano è stato vittima dell'incidente con Jeff Krosnoff, che perse la vita nel 1996 proprio in seguito al vostro contatto. L’accaduto cambiò il suo approccio al motorsport?
«Direi di sì. Ed è successo così anche con ogni amico che ho perso in pista. Penso soprattutto a Elio De Angelis, la cui scomparsa mi ha aperto gli occhi sul mondo dell’arte e della pittura. L’incidente con Krosnoff, ad ogni modo, mi colpì duramente. Si trattò di uno di quei contatti involontari, che non si possono evitare. La mia passione per le corse non venne però scalfita. Ciononostante, qualche volta la mia mente riporta a galla quei tragici momenti».

Alzarsi alle quattro del mattino per sfrecciare ad alta velocità cullati dal sorgere del sole è uno spettacolo

Un anno dopo è invece arrivata la vittoria alla 24 Ore di Le Mans. Per la maggioranza dei piloti si tratta di una gara unica. Vale lo stesso per lei?
«Assolutamente. Parliamo di una corsa lunga e pericolosa, durante la quale si scopre tanto su se stessi. Al contempo la definirei romantica. Alzarsi alle quattro del mattino per sfrecciare ad alta velocità cullati dal sorgere del sole è uno spettacolo (sorride, ndr)».

Ancora oggi ha le mani in pasta nel motorsport?
«Decisamente. Mi occupo di management dei piloti e sono consigliere per alcune scuderie, come Ferrari e McLaren».

Che lettura darebbe, dunque, al Mondiale della squadra di Zac Brown?
«Non sono un grande fan della F1 moderna. Trovo che le auto siano troppo grandi e non attraenti esteticamente (ride, ndr). Ma la competizione in pista è straordinaria. Le vetture sono distanziate da circa un secondo durante le qualifiche. Pochissimo. Significa che, con una buona strategia e un po’ di fortuna, qualunque pilota può vincere una gara. E il team McLaren? Non posso che far loro i complimenti. Brown ha fatto un lavoro egregio, piazzando le giuste figure al posto giusto e creando la coppia - Norris-Piastri - più in gamba della griglia».

Come è cambiato il mondo della F1 degli anni ‘80-‘90 rispetto a quella di oggi?
«Ai miei tempi c’era forse meno rigore. Certo, era comunque importante soddisfare gli sponsor, ma emergeva il carattere dei piloti. Pensiamo per esempio ad Alain Prost (ride, ndr). Ora invece tutto è controllato fino all’ultimo dettaglio, lasciando meno spazio all’originalità. Prendiamo la vita nel paddock. Oggigiorno ci troviamo i media, i membri dei team e poco più. Tutti i piloti e gli spettatori che contano sono nella zona VIP, distanti da tutto il resto».

Spostiamoci al suo amore per l’arte. Come mai ha iniziato a dipingere?
«Perché mi sono innamorato di questa attività. Tutto quello che ho fatto in vita mia è sempre stato mosso dalla passione. A volte però metto in discussione la mia sanità mentale. Dovevo proprio scegliere la F1 e la pittura? Due tra i modi più difficili per guadagnarsi da vivere (altra risata, ndr)».

Lei realizza principalmente ritratti, dipinti di auto da corsa e quadri astratti. Da dove arrivano le ispirazioni?
«Da tutto. Mi sposto con il mio taccuino e prendo appunti. Nei ritratti a volte inserisco delle parole. Si tratta di frasi che ho accumulato per 15 anni. Se leggevo un testo che mi colpiva lo annotavo. Finché un giorno ho capito. Avrei realizzato delle opere con queste citazioni che, per me, erano significative. Gli astratti, che ho chiamato Memories of the past life, sono invece nati dopo una corsa a Le Mans. Tornai nella mia casa di vacanza in Svezia e continuai a rivivere le emozioni della gara. Le luci che sfrecciano, i colori che si fondono. Presi delle tele e disegnai. Così che chiunque potesse capire cosa vede un pilota che viaggia ad altissime velocità. Ultimamente, infine, ho deciso accontentare le moltissime richieste che per anni mi sono arrivate: dipingere auto di F1. Ma non volevo fare qualcosa di scontato. Ci ho pensato per diverso tempo, finché un giorno, in attesa del mio volo da Nizza a Londra, ho letto un libro sul puntinismo degli impressionisti. Mi sono detto: “E se affiancassi la velocità e la tecnologia delle vetture di F1 alla lentezza e tradizione di questa tecnica?”. E ha funzionato. Ricevuto moltissimi ordini per questi dipinti».

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