Tennis

Nel piede martoriato di Nadal si infiltrano pure le polemiche

I ciclisti francesi Pinot e Martin criticano il trattamento anestetico utilizzato dal maiorchino al Roland Garros – Lo specialista Marco Marano: «Rafa non ha fatto nulla di proibito e come medici valutiamo sempre i rischi a lungo termine»
© KEYSTONE (REUTERS/Yves Herman)
Fernando Lavezzo
09.06.2022 06:00

Martedì, due giorni dopo aver vinto il suo 14. Roland Garros, Rafael Nadal è tornato a casa in stampelle. Prima di atterrare a Maiorca, il tennista spagnolo ha fatto tappa a Barcellona, dove ha iniziato un nuovo trattamento per cercare di risolvere i problemi al piede sinistro. Il 36.enne è stato infatti sottoposto a una «radiofrequenza pulsata» per «intorpidire i nervi nell’area della ferita di cui soffre», come ha indicato ieri il suo portavoce. La tecnica RFP, impiegata principalmente per alleviare il dolore cronico, utilizza le proprietà analgesiche delle correnti elettriche ad alta frequenza. Gli elettrodi generano corrente elettrica e calore per «disattivare» parzialmente i nervi che trasmettono l’impulso doloroso all’area interessata.

Una sindrome molto rara

Come noto, da anni Rafael Nadal soffre della sindrome di Müller-Weiss. «È molto rara», ci spiega Marco Marano, specialista in ortopedia e traumatologia all’Ars Medica di Gravesano, nonché team doctor di FC Lugano e HC Lugano. «Si contano pochi casi al mondo», aggiunge. «È una progressiva degenerazione di un osso del piede, chiamato navicolare, che pian piano, per cause non del tutto note, tende a disintegrarsi. I sintomi sono molto seri, indipendentemente dalla pratica sportiva. È infatti un osso molto importante nella quotidianità, anche solo per camminare. Fin che si può, si cerca di preservarlo, assumendo antidolorifici e antinfiammatori e magari utilizzando plantari o calzature speciali. Quando si raggiunge una situazione estrema, occorre intervenire chirurgicamente».

Dopo la finale di Parigi contro Casper Ruud, Nadal ha raccontato di aver potuto giocare il torneo solo grazie a delle infiltrazioni effettuate prima di ogni match. «Il trattamento a cui si è sottoposto è paragonabile a un’anestesia locale», dice Marano. «Gli è stato bloccato l’impulso doloroso che veniva dall’osso sofferente. L’effetto è limitato nel tempo e per questo ha dovuto ripetere l’infiltrazione ad ogni incontro».

Un’esperienza da non ripetere

Con il nuovo trattamento iniziato a Barcellona, Rafa spera di non dover rivivere l’esperienza parigina. Anzi, non ne ha nessuna intenzione, come ha affermato parlando della sua eventuale partecipazione a Wimbledon: «Sarò lì se il mio corpo me lo permetterà. Giocare sotto antinfiammatori, sì. Farlo con iniezioni di anestetico, no». Il numero 4 del ranking mondiale resterà a Maiorca solo pochi giorni, svolgendo una normale attività fisica. «Se l’evoluzione della cura sarà positiva, riprenderà gli allenamenti sui campi», ha affermato il suo portavoce. Non è escluso che Rafa debba effettuare un secondo trattamento la prossima settimana.

Secondo Marco Marano, sarebbe azzardato ipotizzare una prognosi: «Essendo una patologia molto rara, è difficile dire quale potrà essere l’evoluzione del quadro clinico».

Critiche su due ruote

Il racconto di Rafael Nadal sulle sue continue iniezioni anestetiche ha provocato la reazione di due noti ciclisti francesi, Thibaut Pinot e Guillaume Martin. Il primo ha condiviso su Twitter una dichiarazione del maiorchino a Eurosport («Quante infiltrazioni ho effettuato? È meglio che tu non lo sappia») commentandola con un sarcastico «Gli eroi di oggi...». Martin ha affidato i suoi pensieri al quotidiano sportivo «L’Equipe»: «Quello che ha fatto Nadal sarebbe stato impossibile nel ciclismo. Se siamo ammalati o infortunati, non gareggiamo, è questione di buon senso. Innanzitutto, per la salute degli atleti. A lungo termine, non sono sicuro che tutto questo farà bene al piede di Nadal. Inoltre, i farmaci e le infiltrazioni non hanno solo effetti curativi, ma possono avere effetti sulle prestazioni ed essere utilizzati per migliorarle. È molto al limite».

Insinuazioni forti. Ma come ribadisce anche Marco Marano, Nadal a Parigi non ha infranto alcuna regola: «Le infiltrazioni anestetiche non sono doping. Si possono effettuare durante la stagione agonistica e nei periodi di pausa, senza incorrere in sanzioni. Ritengo che queste polemiche abbiano generato un po’ di confusione. Si potrebbe pensare che Rafael Nadal abbia fatto uso di cortisone – che da quest’anno rientra nella lista dei farmaci dopanti – ma non è così».

Cortisone e doping

Anche per quanto riguarda il cortisone, del resto, bisognerebbe distinguere tra utilizzo terapeutico e doping: «Stiamo parlando di un antinfiammatorio molto potente», spiega il nostro interlocutore. «Se un atleta ha una patologia per la quale ne è richiesto l’utilizzo, i medici devono inoltrare una richiesta alla WADA, l’agenzia mondiale antidoping. Proprio i ciclisti sono tra gli sportivi per i quali si registra il più alto tasso di richieste di utilizzo di cortisone per fini terapeutici».

Ma perché il cortisone rientra tra i farmaci dopanti? In che modo migliora la performance? «Riducendo la sensazione di dolore, di fatica e di stress, e anche migliorando la capacità cardiovascolare. Attenzione, però: ha tanti effetti collaterali, soprattutto se assunto in dosi non terapeutiche».

Qual è il limite?

Guillaume Martin ha pure sollevato un problema etico: «Se siamo ammalati o infortunati non corriamo, è questione di buon senso». Dov’è il limite, allora? «Ci sono infortuni e infortuni», risponde Marco Marano. «Dal punto di vista etico, è vero che in alcune situazioni ci si spinge troppo in là per permettere agli atleti di giocare o gareggiare. Oggettivamente, con le possibilità terapeutiche di cui disponiamo oggi, siamo in grado di permettere una performance di alcune ore a ogni atleta, in qualsiasi condizione o quasi. Chiaramente questa decisione può provocare dei danni, anche a lungo termine. È dunque una scelta che va fatta in base ai rischi e ai benefici. Ovviamente la decisione non è solo del medico, ma anche dell’atleta. Può dipendere anche dal momento, dall’importanza dell’evento. Una finale del Roland Garros non equivale al primo turno di un torneo minore. Sono tanti i fattori da considerare e a livello etico lo facciamo quotidianamente, ogni volta che riflettiamo sui rischi che ci sono nel mandare in campo un atleta che non è al 100%».